«Il nostro problema non è il debito, è un falso mito. Il nostro problema non è neanche un improbabile ritorno al passato, al made in Italy, al piccolo è bello. Per potere uscire dalla crisi occorre un gigantesco salto culturale basato su meritocrazia e rispetto delle regole». Roger Abravanel, ha lavorato per 35 anni per McKinsey, la società di consulenza e le sue tesi le va ripetendo in giro per l’Italia e in diversi libri fra cui il celebre “Meritocrazia”. Oggi alle 18 le presenterà a Roma nel Palazzo dei Gruppi parlamentari in un incontro a cui parteciperanno anche Fulvio Conti di Enel e Ivanhoe Lo Bello di Confindustria. Detto così, regole e merito, possono apparire parole vuote, sentite ripetere mille volte, una tiritera su mondi possibili che non si inverano mai. Ma a 65 anni, dopo una laurea in ingegnera chimica al Politecnico di Milano e un Mba all’Insead, Abravanel ha voglia di rivoluzione. L’impostazione è semplice: «se non si rispettano le regole, non nasce la competizione, se non c’è la competizione non c’è la meritocrazia». Sono le conseguenze che sono più complicate.
Il piano da lui elaborato prevede che le pensioni di anzianità spariscano subito (e non fra dieci anni come previsto dal governo) assieme alla cassa integrazione, che coi soldi così recuperati si disegni un sistema di flexicurity dove siamo tutti assunti e tutti licenziabili (ponendo fine all’apartheid fra i 9 milioni di lavoratori licenzabili e gli 11 milioni straprotetti) che ci sia un contratto di lavoro unico, che l’agenzia delle entrate abbia maggiori poteri, che la spending rewiew sia fatta all’inglese con tanto di winner e loser, che l’architettura degli enti locali venga ripensata alla radice come fece Truman, che si attui un metodo Singapore per la selezione della classe dirigente; e poi ancora una stretta misurazione e valutazione delle scuole e una riforma radicale della giustizia civile, non con nuove leggi, ma con nuovi sistemi di valutazione dei magistrati, in pratica estendendo a tutta Italia il metodo di lavoro fatto al Tribunale di Torino che ha abbattuto il numero di cause pendenti.
«L’agenda Monti è giusta – dice a Linkiesta – ma è stato fatto solo 10%. Con le mie proposte si raggiunge il 100%». Ottimo, ma qual è il fine, dobbiamo competere puntando ad avere anche noi campioni nazionali dell’ICT come Google o Facebook o puntando sullla nostra tradizione artigianale inserita in global supply chain come chiede ad esempio l’economista Stefano Micelli di Ca’ Foscari e il movimento dei maker? «Bisogna competere nei servizi (turismo , assicurazioni, ecc) dove siamo indietro, fare crescere le aziende medie globali e fare 100 Luxottica. Il problema e che non riusciamo per le ragioni che spiego». Vediamo allora più nel dettaglio alcuni dei miti che Abravanel vuole sfatare nel tentativo di avere 100 Luxottica (società fra l’altro in cui siede nel cda).
Prendiamo proprio il nodo delle regole. È vero che il problema è che sono troppe? No, dice, «lo sviluppo è frenato da un circolo vizioso di regole sbagliate e non rispettate». E prende ad esempio Rc auto. Le regole proteggono l’incidentato e non l’assicurato prudente e onesto. «Così abbiamo il record mondiale dei colpi di frusta e interviene il regolatore che si mette sempre di più dalla parte dell’assicurato. Il risultato è che crescono i costi e che le tariffe medie sono il doppio che in Europa, con Napoli dove si arriva al quadruplo». Oppure, altro mito: all’Italia servono i periti industriali. No, dice, «la percentuale di laureati fra i 25 e i 64 anni è del 12,9% rispetto ad esempio al 30% del Regno Unito. L’Italia ha troppi pochi laureati. E i dati che mostrano che le aziende non li assumono sono fuorvianti. Perché il problema è quali laureati. Quello che manca da noi è il laureato a 21 anni che ha imparato una didattica. Oggi il lavoro è fatto di terziario, della necessità di lavorare in team, quello che occorre sono le cosidette “competenze della vita” che si imparano a scuola. Poi certo c’è un problema di offerta e di domanda perché le piccole aziende non assumono laureati. Ma nella società post industriale quello che si sviluppa l’economia è il capitale umano e senza laureati questo sviluppo non c’è». In pratica significa portare la scuola italiana più vicina alle idee di John Dewey che a quelle di Gentile.
Torniamo allora ad alcune delle proposte di cui abbiamo parlato poco fa. Prendiamo ad esempio quella sulla selezione della classe dirigente. Abravanel ha studiato a lungo il modello Singapore, considerato il più meritrocratico al mondo. Qui scelgono gli alunni più bravi, li mandano a studiare nelle migliori università, tornano a 30 anni e a 32 sono sottosegretari remunerati come nel privato. La proposta è di fare una cosa simile anche noi, senza pensare all’Ena francese o all’Ivy League americana. «Prendiamo i mille più bravi, lo facciamo formare a spese dello Stato e li inseriamo nella Pubblica Amministrazione a 35 anni e non a 50». Insomma, su ogni singolo punto Abravanel propone una controricetta molto radicale. Anche la spending review lui la farebbe alll’inglese, tagliando soldi in un settore per trasferirli su un altro (il metodo winner and loser), ma questo solo la politica può farlo.
Applicare queste tesi significa rivoltare l’Italia come un calzino nella consapevolezza che seguire le regole non è dettato da un afflato etico superiore ma da una mera convenienza. Chiunque abbia lavorato a Londra o negli Usa sa che il merito è laico nel vero senso del termine: vale a dire che non ha dèi, ma manco il dio del non averne. Il tuo cognome o di chi sei figlio non conta perché l’azienda deve fare profitti e guarda solo a cosa sai fare. Poi, certo, restano aperti mille punti. Ad esempio è vero che con le stampanti 3D il manifatturiero tornerà verso Ovest, e nella fattispecie negli Usa, come sostiene il Financial Times, o è vero che questo tipo di attività è meno adatta alla loro cultura tayloristica e più consona alla nostra tradizione artigianale e che dobbiamo riorganizzare la nostra produzione in questo senso? E le domande aperte sono anche molte altre. Perché trovino una risposta adatta, perché le proposte di Abravanel possano andare avanti, bisognerà però che quelli che lui definisce “miti” non siano davvero tali. Perché il mito, diceva Sallustio, è «quelle cose che non furono mai ma sono sempre».
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