TREVISO – È complicata l’introspezione dei popoli. I veneti sono abituati a percepirsi come imprenditori nati. Ma questa crisi economica sta sgretolando certezze. I giornali locali abbondano di notizie (alcune riprese anche da Linkiesta) che riportano cronache di code crescenti ai pubblici concorsi per ottenere un posto, sia pur precario, da statale. Ma davvero la spinta propulsiva della partita iva si è esaurita? Davvero siamo di fronte a un crollo della vocazione imprenditoriale nel Nordest?
Mario Pozza è il presidente di Confartigianato Marca Trevigiana. Come conferma il Ministero dello Sviluppo Economico, in Italia la propensione all’impresa artigianale è molto più alta che nel resto d’Europa, con una media di 24,7 imprese ogni 1.000 abitanti. Ad eccellere nel numero (oltre soglia 30) è proprio il Veneto (assieme ad Emilia Romagna, Marche, Valle d’Aosta, Toscana e Piemonte). Ma le cose non sono più facili come un tempo. «Bisogna essere degli incoscienti per voler diventare imprenditori oggi, con questa crisi», dice Pozza. «Se hai un’impresa, devi tirare avanti per forza. Ma se non ce l’hai, ovvio che ci pensi due volte prima di aprire. Qualcuno inizia. Ma sono estetisti, parrucchieri… Nella produzione industriale non si avventura nessuno. Altro che fuori dal tunnel! Ci siamo talmente in mezzo, che non solo non si vede l’uscita, ma voltandosi non si vede più neanche da dove siamo entrati. Gli annunci del governo sulle start up, le imprese in un giorno, le srl con un euro di capitale sociale sono solo parole. Voglio vedere quando poi questi vanno in banca a chiedere il credito cosa succede… Già ora la mortalità infantile delle imprese è altissima: oltre il 50% chiude entro tre anni. I bar hanno spesso un anno o due di vita. I giovani veneti hanno spirito imprenditoriale, sì. Ma tra crisi, costi di gestione, tasse e burocrazia, lo spirito giovanile si smonta subito…».
Giovanni Costa è professore emerito all’Università di Padova (insegna Strategia d’impresa alla facoltà di Economia). È anche vicepresidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo e presidente della Cassa di Risparmio del Veneto. Ha scritto un libro dal titolo un po’ criptico – di cui Linkiesta ha pubblicato un piccolo estratto – La sindrome del turione. «Il turione», spiega, «è la parte commestibile dell’asparago. Quello bianco, che fa la ricchezza dei coltivatori bassanesi, svolge il suo lavoro sottoterra. Appena emerge va tagliato, altrimenti diventa altra cosa. Anche la piccola impresa veneta ha lavorato bene, stando attenta a non mettere fuori la testa, se no gliela tagliavano. Adesso, però, nel mercato globale, quella che era una strategia è diventata una sindrome. Io cerco di evitare la contrapposizione ideologica grande/piccola impresa. Parlo di adeguata/inadeguata rispetto al mercato di riferimento. Prendiamo una start up. Può essere grande anche con tre addetti, se presidia una nicchia dove è innovatrice assoluta e in cui ha aperto un nuovo settore di mercato. Ci spaventano un po’ di giovani veneti in coda per un posto da infermiere alla Asl? Io ho una raccolta intera di ritagli di giornale, fin dagli anni Settanta, che raccontano di file enormi, in Veneto, per il posto sicuro all’Inps… Andiamo piuttosto a vedere le code di gente che cerca di capire come si fa un business plan. Le file alle start up competion. Ci sono. Anche se fanno meno notizia. Dobbiamo smetterla di celebrare i successi imprenditoriali passati e riflettere su chi (e come) ce la fa oggi».
Eppure il quadro sembra grave. Il Rapporto 2012 di Officina Veneto, il think tank messo su in Regione dalla Lega Nord, fotografa la situazione e la sintetizza in venti lapidari tweet. Eccone tre: «La ripresa del 2010 (Pil +3,2%) è troppo fragile: si sgonfia nel 2011 (+0,6%) e cala nel 2012 (-1,5%)»; «Anche gli imprenditori non credono nella ripresa: indicatore di percezione sul dinamismo imprenditoriale solo a 28,5 su 100»; «Rischio di perdita di tessuto imprenditoriale nella regione: negli ultimi cinque anni la componente giovane tra gli imprenditori diminuisce del 10%».
Giovanni Costa non ci sta, però, a buttare la croce addosso ai giovani: «Io mi sarei aspettato di più – e continuo ad aspettarmelo – dagli imprenditori veneti che hanno avuto successo. Invece la neoborghesia del Nordest, che non ha la storia alle spalle di quella del Nordovest, ha dimostrato una carenza di spirito capitalistico, nel senso weberiano del termine. Ci sono casi molto positivi, ma si contano solo a decine su svariate migliaia di aziende. Troppi nostri imprenditori si sono dimostrati, invece, poco vogliosi di crescere a livello globale. Si sono un po’ seduti. Gianni Mion, il padre della holding Benetton (quella che oggi si chiama Edizioni) alla domanda su come scegliesse i suoi ottimi collaboratori rispose “devono avere la fame negli occhi”. Ecco, forse da noi in Veneto quella fame è un po’ venuta meno. È fisiologico… I giovani, comunque, sono reattivi. Le start up sono tante, anche se la mortalità è alta. Le provvidenze pubbliche non vanno bene, perché ne fanno nascere tantissime, cadendo a pioggia, ma senza selezione, e quindi senza ali per volare. Invece deve crescere una finanza adeguata, il cosiddetto venture capital, che in Italia è ancora indietro. E deve cambiare la mentalità: si può sbagliare all’inizio della vita imprenditoriale, senza che questo lasci uno stigma. Purtroppo da noi, fino a poco tempo fa, il fallimento in senso stretto, commerciale, era dominio del diritto penale. E la cosa ha lasciato i suoi strascichi psicologici. Ancora adesso, a livello sociale, si punisce più l’insuccesso di quanto non venga premiato il successo. La scuola dovrebbe fare di più per far trasmettere in Veneto, e in Italia in generale, il valore del mettersi in discussione, del rischiare, del farcela se va bene, e se va male del poterci riprovare. Soprattutto quando si è giovani. Perdoniamo tutto in questo Paese, tranne l’insuccesso imprenditoriale…»
Anche Paolo Gubitta è professore all’Università di Padova (dove insegna Italian entrepreneurship, Management skills development, Organizzazione aziendale e Organizzazione e governo delle Pmi). «Recentemente», racconta, «abbiamo fatto una ricerca a livello nazionale – che includeva anche Padova – per capire la propensione all’imprenditorialità degli studenti delle facoltà di Economia. Il Veneto è percepito come una culla dell’imprenditorialità. Ebbene: su una scala che va da 1 a 7, la percezione dell’approvazione di amici e parenti rispetto a una scelta imprenditoriale è risultata di 5,28 a livello nazionale e di 4,16 tra i veneti (a Padova). Un dato drammatico. A cui si aggiungeva la controprova: lavorare come dipendente in un’azienda – sempre sulla scala da 1 a 7 – ha ricevuto un 5,80 di apprezzamento a livello nazionale e un bel 6,18 tra i veneti. Il lavoro con maggiore appeal risultava essere quello di manager. Molto più che non diventare imprenditore. Una cosa che, personalmente, mi ha fatto rabbrividire, visto che almeno il 90% di quegli studenti sono del Triveneto e data la concezione che ho della mia terra…».
«A che cosa può essere dovuto tutto questo? Primo: il nostro territorio è ricco di piccole imprese, che, negli ultimi anni, nel dibattito giornalistico (non certo in quello scientifico!) sono tacciate di essere responsabili dell’arretratezza del sistema economico italiano e, in definitiva, di buona parte dei suoi guai. C’è del vero, ma per grossa parte si tratta di una falsa accusa. Ma un ventenne lo capisco. A fronte di questo flusso continuo che dipinge le piccole imprese del territorio come una gloria del passato ma una palla al piede per il futuro, chi non ci crederebbe? I piccoli imprenditori sono sempre rappresentati come evasori, capaci solo di lamentarsi, dalla mentalità ristretta… Essere “l’imprenditore tipico” delle nostre parti non è più cool. Non è figo per un giovane d’oggi… Secondo: puntiamo molto sulle carriere internazionali, anche a livello di formazione universitaria. Non possiamo poi pretendere dai ventenni che facciano sia esperienze all’estero che impresa qui sul territorio».
«I giornali, i genitori, il mercato del lavoro. Tutto se hai vent’anni ti dice “vai all’estero, non fare l’imprenditore”. Alla lunga questo potrà causare un grosso danno alla nostra economia. Il Global entrepreneur monitor lo dice chiaramente: la maggiore propensione imprenditoriale è tra i 25 e i 34 anni. In questa fase la mente è più elastica: si è più propensi a rischiare, avendo davanti a sé un orizzonte temporale più ampio. E non si è sclerotizzati dalla routine. Si è aperti all’innovazione sia di processo che di prodotto. Se noi perdiamo una generazione, come sembra stia accadendo, perdiamo innovazione e possibilità di crescita».
«Per i giovani ventenni è più cool fare i manager in imprese medio-grandi. La cosa ha una sua logica. Ma questo li porta a emigrare. Per fare carriera bisogna gestire bene i primi 2/3 anni della propria socializzazione occupazionale. In Italia, e nel Nordest in particolare, non c’è un numero sufficiente di grandi aziende con profili ad elevato contenuto di complessità, le cosiddette high-position. Saranno una ventina al massimo. Pochi posti. Ovvio che i giovani facciano le valigie. Qui non c’è la possibilità di strutturarsi una carriera manageriale di alto livello. Non si può chiedere ai giovani di restare per orgoglio di patria. Bisogna spingere le aziende a crescere per avere più appeal sui piccoli manager in erba».
«In ogni caso, non mi preoccuperei più di tanto del calo nel numero degli imprenditori in Veneto. Bisogna anche guardare alla qualità. Gli imprenditori non vanno solo contati, ma anche pesati. Finché perdiamo negozi di alimentari e parrucchieri va ancora bene. L’importante è non perdere le imprenditorialità knowledge intensive e creative. E ricordiamoci che, sempre di più, un imprenditore per essere bravo, deve studiare. Non mi piacciono quelli che dicono che la crisi è stata meritocratica perché ha fatto chiudere chi prima galleggiava pur non avendo grosse capacità. Bisogna sempre ricordarci di chi lavorava con quegli imprenditori, sia pur mediocri. Dei posti di lavoro che si sono persi e delle difficoltà economiche di tante famiglie. Preferisco dire che sta igienizzando il sistema».
A frenare le pulsioni imprenditoriali dei giovani veneti, però, non c’è solo la crisi. Ci sono anche i vecchi. I loro genitori. «È difficile ereditare il ruolo di comando nelle aziende», spiega Gubitta. «Il passaggio generazionale andrebbe pianificato per tempo. Ma quasi mai è così. Non esistono amministratori delegati che restano in carica 40 anni. Non si capisce perché da noi, nelle aziende familiari, il fondatore debba rimanere capo una vita intera. Bisognerebbe rendere più agile per i familiari in disaccordo (e quante sono le beghe nelle aziende!) uscire vendendo quote. Ora finiscono per restare perché dissanguerebbero la famiglia. Ci vorrebbero anche da noi delle merchant bank per rilevare quote, per lo meno fino a quanto la parte della famiglia che resta in azienda non può riacquistarle. E poi servirebbero maggiori strumenti di garanzia patrimoniale per la generazione uscente. Ora l’unico modo per cacciare il vecchio è che l’azienda fallisca. Anni fa, l’ora ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca scrisse un bellissimo libro, Imprese in cerca di padrone; Proprietà e controllo nel capitalismo italiano. Questo è il nostro dramma! I vecchi imprenditori che passati i sessant’anni dicono di restare al comando perché “non hanno un successore” dichiarano il loro fallimento esistenziale e imprenditoriale. In quarant’anni di lavoro, se non ti sei allevato il successore – familiare o non, perché ci sono i figli intelligenti, ma anche i figli mona, e oggi, grazie allo studio, può sviluppare competenze imprenditoriali anche un non figlio di imprenditori – hai fallito. Dato che – anche per chi ci crede – di Gesù ce n’è stato uno solo, e tutte le altre persone sono rimpiazzabili. Discorso che, naturalmente, può essere esteso alla politica e all’università».
Paolo De Nadai, 24 anni, è stato uno degli allievi di Gubitta alla facoltà di Economia di Padova ed è un esempio di come l’anima imprenditoriale veneta resiste. Con il socio – e amico – Francesco Nazari Fusetti, ha sentito il fuoco dell’imprenditoria sin da giovanissimo. La prima volta non è andata bene, la seconda decisamente sì. Si racconta così: «Appena ho compiuto 18 anni mi sono lanciato nella mia prima avventura imprenditoriale. Ho aperto una pizzeria notturna al trancio per studenti nella zona del ghetto di Padova. È partita bene. Poi hanno approvato l’ordinanza per la chiusura dei locali a mezzanotte, ed è stata la fine. Il fatturato ha avuto un crollo e ho dovuto chiudere. Ma non mi sono dato per vinto, e non mi sono sentito un fallito. La seconda avventura era nata, un po’ per gioco, sul web, nell’aprile del 2007, per denunciare la mala-istruzione. Nella mia scuola avevamo una pessima esperienza con un docente, ma il preside diceva che era inutile far denuncia. Io ho fatto col telefonino dei video di questo prof che addirittura fumava in classe. E l’ho caricato su questa piccola piattaforma internet. Passato l’esame di Stato ho spedito il link a Studio Aperto, che l’ha mandato in onda, citandomi. In un giorno ho avuto 160mila utenti unici e una visibilità incredibile (mi chiamò anche Giuseppe Fioroni, all’epoca ministro dell’Istruzione, e facemmo una puntata su Mtv). Capii che poteva diventare un business. Oggi scuolazoo.com è una piattaforma per studenti da oltre 3 milioni di contatti a bimestre. Abbiamo la nona pagina facebook con più like d’Italia, oltre 650mila. Ce la giochiamo con la Gazzetta dello Sport. E un network di 70 pagine tematiche per un totale di 15 milioni di fan. Ormai rappresentano una nostra area di business, perché forniamo servizi di advertising alle aziende, grazie a questa smisurata platea. Le altre tre aree di business sono le revenues della pubblicità, non indifferenti visto il milione e ottocentomila contatti al mese; l’area viaggi (operiamo come tour operator per i maturandi, con la logica del più siamo meno paghiamo; quest’estate ne abbiamo mandati in giro 3.600) e il diario scolastico. Distribuito in 2.600 punti vendita e tirato in 100mila copie è ormai il terzo più venduto in Italia dopo Smemoranda e Comix. E il primo user generated content, visto che ci finiscono i contenuti più votati nelle community sul sito. I ragazzi quindi ci si riconoscono. Al momento lavorano in azienda 18 persone e due anni fa abbiamo spostato la sede da Padova a Milano».
Sempre a Padova, Daniele Marini è presidente del corso di laurea in Scienze della Formazione Continua. È anche direttore scientifico dela Fondazione Nord Est. «La maggiore difficoltà per le nuove generazioni di mettere in piedi imprese è oggettivo», dice. «In precedenza era relativemente semplice: un capannoncino vicino a casa, voglia di fare, e tutto iniziava presto a filare. Ormai non è più così. Fare impresa richiede abilità che non sono più quelle semplici di una volta, quando si imparava mettendosi accanto al vecchio o ingegnandosi da soli. Oggi non è più plausibile. I giovani veneti sono mediamente più istruiti dei vecchi. Sono diplomati, spesso laureati. Vanno all’estero. Conoscono le lingue. C’è un indubbio salto qualitativo. Ma non basta: nel mondo globale fare impresa è terribilmente più complesso rispetto ai tempi dei loro padri. Padri che, peraltro, non cedono il timone. Oggi un “giovane” – giovane molto tra virgolette a quel punto – non eredita il controllo dell’azienda prima dei cinquant’anni. Altro fatto: i giovani di oggi hanno un’altra propensione al lavoro. Prima il figlio di un imprenditore doveva fare l’imprenditore. Stop. Adesso è diminuito l’obbligo sociale: la professione è una scelta piuttosto libera, che fa parte della sfera individuale, e quella di fare l’imprenditore è solo una delle opzioni. Per finire, non va dimenticato che, con il calo demografico, la platea dei giovani – e quindi dei potenziali giovani imprenditori – è diminuita».
Marini cerca tra le sue carte. «Ecco», riprende, «c’è un dato molto significativo: mette a confronto il 2008 (quindi alla vigilia della grande crisi) con il 1998. Si riferisce ai giovani lavoratori veneti tra i 30 e i 34 anni. Gli autonomi erano il 26% nel 1998 e sono diventati il 20% nel 2008. Specularmente, quindi, in un decennio, la percentuale dei dipendenti è salita dal 74 all’80. Su questo pesa il tema culturale delle criticità legate al passaggio generazionale. La difficoltà dei vecchi a lasciare il testimone nelle aziende, e il fatto che si creino forti tensioni nelle fabbriche tra due culture confliggenti, quelle degli imprenditori anziani e dei loro figli giovani imprenditori. Dal paròn faso tuto mi, con verticismo e personalismo esasperato, a un lavoro più di staff, con una macchina organizzativa più complessa, e una delega articolata delle funzioni. Le due visioni entrano spesso in conflitto, anche aspro. Ma raramente i giovani hanno il coraggio o la possibilità di uscire dall’azienda e mettere in piedi qualcosa di loro. E, se restano, devono piegare la testa».
«Capirete che, con questi limiti generazionali e in questo quadro economico, l’idea di poter avere un posto fisso, stabile, è allettante. Non è un fenomeno nuovo, però: la svolta è in corso da parecchi anni in Veneto, per lo meno dalla fine degli anni Novanta. Ma attenzione: non è detto che se si ha un posto fisso si abbia anche la mentalità del posto fisso. Nel nostro contesto culturale il lavoro autonomo rimane la massima aspirazione. Qui ognuno ha in testa l’idea di mettersi in proprio, prima o poi. Ma soprattutto tra i giovani, che sperimentano una vita molto flessibile, precaria, il posto fisso può essere un porto sicuro per questi tempi tempestosi, in attesa che il mare dell’economia torni più tranquillo. Lo vivono come un gancio. Sono all’ancora in attesa che la burrasca passi».
Ma in realtà, quando la burrasca della crisi sarà passata, probabilmente nulla sarà più come prima. Proprio Marini ha scritto un libro, Innovatori di confine; I percorsi del nuovo Nordest in cui tratteggia molte delle trasformazioni in corso. «Con un gioco di parole», spiega, «amo dire che i famosi distretti del Veneto sono diventati dei dis-larghi. La crisi attuale spinge i sistemi produttivi a cambiare le forme di funzionamento. In passato i distretti erano piccole aree omogenee, spesso con una o qualche azienda leader e molte aziendine di filiera o di settore. Quando quel mercato andava bene, tutti andavano bene. Quando quel mercato andava male, tutti andavano un po’ meno bene. Ora il meccanismo è cambiato: nello stesso distretto le imprese che si sono più strutturate, che hanno allargato la rete di forniture e relazioni guardando a tutto il mondo, quelle che si sono internazionalizzate e hanno innovato vanno bene, o anche molto bene. A poche centinaia di metri di distanza, chi è rimasto fermo, ancorato al locale, incapace di reinventarsi, ha chiuso o sta per farlo. Quindi la crisi è stata un processo fortemente selettivo, e in questo 2012, anno davvero horribilis, lo è ancor di più. La crisi polarizza. Divide di netto tra chi ce la fa e chi no. Comunque, dal 2000 in poi, l’imprenditore del Veneto non esiste più: si è operatori su scala e concorrenza mondiale. Tutto è diventato più complicato. Per non parlare dei livelli di tassazione e della burocrazia… Si dice ai nostri giovani di fare gli imprenditori, di fare come negli Usa. Ma in Italia non può nascere un Bill Gates: quello che parte dal nulla, dal garage, e diventa miliardario. Qui, se apri in garage, il giorno dopo hai fuori polizia, asl, e Guardia di Finanza. Altro che miliardi, sei rovinato».