Felice Gimondi compie 70 anni: “Il momento più triste? La morte di Pantani”

Felice Gimondi compie 70 anni: “Il momento più triste? La morte di Pantani”

Negli anni Settanta è stato uno dei più grandi interpreti del ciclismo mondiale. Uno dei più grandi di tutti i tempi, soprattutto per noi italiani. Ha vinto tutto, nonostante ci fosse quello là, Eddy Merckx, che ha vinto tutto e anche più. Ora Felice Gimondi si ritrova lì, ai mitici settanta, che non sono più gli anni della giovinezza, della maturità atletica, ma di un uomo che ha raggiunto un importante traguardo di vita e lo fa con apparente leggerezza, il consueto garbo e la consueta classe.

Brontola un pochino Felice, perché sarà anche una festa, «ma settant’anni ci sono tutti», dice lui con quel suo vocione tra il laconico e l’imbarazzato. Brontola Felice Gimondi da Sedrina, ma è contento, «perché festeggio questo traguardo con mia moglie Tiziana, l’amore della mia vita. Perché li festeggio con le mie figlie Norma e Federica. Cosa posso dire: ho qualche acciacchino ma sto bene e sono qui a godermi questo importante traguardo».

Lo incontro per fare due chiacchiere con quello che oggi è uno dei grandi signori del ciclismo, e qualche anno fa è stato il mio grande campione. Il sogno di un ragazzo che sperava un giorno di diventare un Gimondi e, una volta respinto dalla strada, ha avuto la fortuna di incontrarlo, conoscerlo, apprezzarlo e oggi raccontarlo. Per la mia gioia, e spero anche per la vostra.

Scusa Felice, posso darti del tu?
Certo che si, è anni che ci diamo del tu.

Ma sai che il galateo del buon giornalismo, soprattutto in certi momenti e per certe ricorrenze impone il lei…
Vedi di non fare il pistola…

Bene, diamoci del tu. Felice, come ti senti?
Felice per l’affetto di tanti amici, tanti sportivi. Felice di essere ancora considerato Gimondi. Quando ero all’apice della carriera ogni tanto mi chiedevo: chissà come sarò tra venti, trent’anni. Sarò ancora ricordato come un grande corridore? Sapranno ancora chi è stato Gimondi? Bene, quarant’anni dopo la risposta me l’hanno data in occasione di questo magnifico compleanno, celebrato con una festa bellissima nella mia città e seguita dalla partenza del Giro di Lombardia in mio onore. Sanno ancora chi sono.

Ti ricordi la tua prima corsa?
Certo che me la ricordo, mica sono rimbambito. A Treviglio, categoria allievi. Vado alla gara su un motocarro sgangherato. Quando arrivo la corsa è già finita.

E la prima bicicletta?
Un’Ardita rossa, regalo per la promozione in quinta elementare.

Il momento più bello della tua vita?
In assoluto il giorno del mio matrimonio. E di pari livello quando sono nate le mie due figlie. Come corridore, quando vinsi il Tour ad appena 22 anni e smisi di fatto di fare il vice-postino a mamma Angela. Ma ricordo con grande gioia anche quando portai a casa il mio terzo Giro d’Italia a quasi 34 anni.

I momenti più tristi?
Di uomo quando ho perso i miei genitori. Da atleta ne conservo alcuni, che mi sono restati dentro come se fossero scolpiti nel cuore. 1967: muore Tommy Simpson. Ricordo la tristezza e il pianto di tutta la carovana la mattina successiva durante la funzione nella chiesa di Avignone. Nel cuore mi è rimasta anche la morte di un povero gregario spagnolo, Santisteban, che si schiantò contro un guardrail durante la prima tappa del Giro d’Italia del ’76, quello che poi vinsi. Potrei dirti anche il Giro del ’78: l’annuncio della morte di Aldo Moro mi fa venire ancora la pelle d’oca. Momenti duri e bui. Mai potrò invece dimenticare quel San Valentino del 2004. Stavo rientrando a casa con mia moglie quando mi raggiunse una telefonata che mi annunciava la morte di Marco Pantani. Restai attonito, senza parole. Non potevo crederci. Mi dicevo: non è possibile. Eppure sapevo benissimo che era possibile. Ero stato presidente della Mercatone Uno dal gennaio 2000 sino alla conclusione del Giro 2001, quando decisi di fare un passo indietro, perché Marco faceva di testa sua, senza ascoltare nessuno. Forse tra noi non c’è mai stato davvero un vero feeling, e la cosa mi dispiacque molto, ma non pensavo che la sua parabola di uomo e di atleta sarebbe potuta finire in quel modo. Oggi però Marco lo voglio ricordare solo per le cose belle che ha saputo fare in sella alla sua bicicletta. Il Marco del Galibier, quello di Oropa, quello delle due vittorie sull’Alpe d’Huez: che corridore…

Momenti difficili nella tua carriera di corridore?
Quando conobbi Eddy Merckx. Dal’65 al ’67 ero stato io il Cannibale, poi arrivò la cronometro del Giro di Catalogna: persi per 33” e mi crollò il mondo addosso. Due anni ci impiegai a farmene una ragione. Poi compresi perché aveva vinto: era il più forte. Troppo più forte. Ma i momenti più difficili furono anche il caso del presunto doping di cui venni accusato e successivamente prosciolto, alla fine del 1968. Devi sapere che fino all’estate del 1967 i controlli antidoping non esistevano: il primo della storia venne eseguito al termine della tappa del Puy de Dome al Tour 1967, tappa fra l’altro vinta dal sottoscritto che si presentò tutto solo sul traguardo. Il primo regolamento antidoping entra in vigore all’inizio del 1968, ma è un regolamento pieno di lacune: ci sono prodotti vietati che non lasciano tracce nelle urine e prodotti consentiti che, al contrario, ne lasciano. Ultima tappa del Giro: Chieti-Napoli, una tappa senza storia. Classifica ormai definita: io terzo a oltre 9 minuti dal mio amico Eddy e a più di 4 da Vittorio (Adorni, ndr). Come terzo in classifica vengo sottoposto a controllo e tre giorni dopo vengo a sapere di una mia positività. Ovviamente mi ribello al verdetto e grido la mia estraneità. La Salvarani, la mia squadra, sposa in pieno la mia causa, mettendomi a disposizione due luminari della scienza – i professori Genovese e Lodi -, per organizzare la mia difesa. Chiediamo le controanalisi, ma il giorno in cui mi presento ai laboratori dell’Acquacetosa, su suggerimento dei due periti, assumo le stesse sostanze non proibite che avevo utilizzato durante il Giro: il Rectivan prodotto da un’azienda che si chiamava Merck (a volte le coincidenze, ndr). Compio tre giri del circuito dell’Isola, nella pianura bergamasca, dietro la moto del massaggiatore Pirovano, per un totale di 120 chilometri e 55-58 all’ora. Poi, una doccia veloce e l’aereo da Linate per Roma. Lì mi sottopongo al prelievo delle urine alla presenza dei responsabili dell’antidoping, dopodichè analizzano il liquido con uno strumento che a quei tempi si chiamava gascromatografo. Risultato: gli stessi picchi similari alla positività. Lampante la mia innocenza e, infatti, poi vengo immediatamente prosciolto.

Qualche problema arrivò però al Tour del ’75…
Tappa che finiva a Pra Loup. Allora se ti trovavano nelle urine qualche traccia di sostanza sospetta ti beccavi una penalità di 15’ e potevi però continuare a correre. Così finii ancora quinto in classifica, a 13’ da Thévenet che conquistò quel Tour. Il doping però in quegli anni faceva parte del gioco, ma era un fenomeno occasionale, qualche cosa qua e là, un aiutino estemporaneo fatto in casa, con cardiotonici e stimolanti. Emoglobina o ematocrito non sapevamo neanche cosa fossero.

Ai tuoi tempi, in compenso, i chilometri da percorrere erano tanti.
Le corse erano più lunghe, anche il Giro di Romagna o il Giro dell’Appennino superavano i 260-270 km, quindi reggevano ai vertici solo i più forti. Oggi su distanze più brevi la concorrenza aumenta e così molti corridori preferiscono selezionare le gare e fare solo quelle.

Qual è il ciclista di oggi con le caratteristiche tecniche di Felice Gimondi?
Vincenzo Nibali. È tra i pochissimi che corre da febbraio ad ottobre. È competitivo sempre, nell’arco di tutta la stagione. Si difende su tutti i terreni, ha la testa dura come il sottoscritto. Forte nelle corse a tappe e tutt’altro che debole in quelle in linea. Si, Vincenzo mi piace molto.

Cosa pensi del caso Armstrong?
Bisogna conoscere bene le carte e tutta la vicenda, ma dico solo una cosa: se Armstrong non è mai risultato positivo in carriera, deve poter mantenere tutte le sue vittorie. È come se oggi la Polstrada mi desse una multa perché superai i 130 km orari tanti anni fa, quando non c’era ancora quel limite di velocità.

E del caso Contador?
C’è stata una positività giusto togliergli il Tour, ma il Giro del 2011 vinto sulla strada senza macchia è da ritenere suo.

A chi devi dire grazie?
Ai miei genitori. Non finirò mai di essere grato per il loro insegnamenti. Sono cresciuto in una casa dove c’era tutto il necessario ma non c’era niente di superfluo. Devo dire grazie all’oratorio, che mi ha fatto crescere. Non smetterò mai di benedire il giorno in cui ho cominciato a correre un una società, la Sedrinese, nata proprio nell’oratorio. Sono stato fortunato, perché in questa squadra famiglia ci sono stato fino al mio passaggio al professionismo.

Il tuo rapporto con la fatica.
La predisposizione alla fatica è stata fondamentale nel farmi diventare corridore: sempre meglio che lavorare in miniera, o fare il muratore.

Non hai trovato la malta e i mattoni ma un certo Eddy Merckx…
Un mostro della natura. Forte, fortissimo, assolutamente fuori dalla portata di chiunque. Eppure, nonostante lui e forse grazie a lui, sono diventato Felice Gimondi. D’altra parte, anche un altro grande del ciclismo come Fiorenzo Magni è riuscito a fare quello che ha fatto con Coppi e Bartali tra i pedali. Io mi sono trovato il più grande di sempre, e ho lottato come un leone per contrastarlo. Di soddisfazioni me ne sono tolte anch’io. E che soddisfazioni… 

Al Giro del ’67, a quello del ’76, ma forse il fiore all’occhiello: il mondiale di Barcellona nel 1973…
Sul circuito del Montejuic ho fatto un capolavoro. Due belgi da battere: Merckx e il giovane Maertens, oltretutto coalizzati per farmi fuori. Nel finale, quando eravamo rimasti in quattro (loro tre più Ocana, ndr), mi accorsi che Eddy non pedalava benissimo. In volata mi giocai alla grande l’occasione della vita. Ecco, quel giorno ho capito una volta di più, che quando ti capita l’occasione non puoi permetterti di non farti trovare pronto.

Tutti ti conoscono per essere un gran signore, ma da corridore, ricordano, che sei stato anche molto tosto: a tratti anche duro.
Vero, verissimo, ma tu non sei mai stato cattivo, esagerato o ingiusto? Io si. E per questo chiedo scusa. Ricordo perfettamente un giorno che c’era un corridore olandese, Van der Vleuten, il quale aveva in fuga due compagni di squadra. Noi dietro tiravamo a tutta e lui si metteva in mezzo per rompere i cambi: faceva in poche parole il suo lavoro. L’ho invitato un paio di volte a farsi da parte, ma lui niente. Alla terza, quando mi è capitato a tiro, gli ho dato una strattonata e l’ho fatto finire in un fosso. La mattina seguente, quando mi sono reso conto di essere stato estremamente cattivo e ingiusto, sono andato a cercarlo per chiedergli scusa. Appena mi ha visto, mi è venuto incontro lui porgendomi un fiore: mi ha dato una lezione. In ogni caso sono stato duro e severo anche con i miei compagni di squadra. D’altra parte io duro e severo lo ero anche con me stesso. Sono sempre stato molto esigente. Chiedere a Ronchini, Parsani, Houbrechts, Ferretti e tanti altri. A tutti quanti chiedo loro scusa.

Anche con la signora Tiziana sei stato molto esigente?
Soltanto dopo aver smesso di correre mi sono reso conto di averle inflitto grosse limitazioni. Abituata al mare e all’allegria della Riviera Ligure, l’ho portata a vivere in un piccolo paesino della bergamasca. Non deve essere stato assolutamente facile. Poi io quando preparavo una corsa ero intrattabile. Lei è stata eccezionale. Non mi ha mai fatto pesare niente. Sempre discreta e disponibile: davvero una grande donna, che ha tirato su Norma e Federica in maniera eccezionale. Cosa posso dire? Io ho avuto Merckx, ma lei ha dovuto sopportare me: non è cosa facile. Credetemi.

A proposito della signora Tiziana: è stata grandissima anche durante il Giro del’76…
Ti riferisci alle minacce di rapimento?

Esattamente.
Vinco il Giro, festeggio in piazza Duomo e mi guardo attorno: non c’è Tiziana. Vado all’hotel Andreola dove è fissato il quartier generale della Bianchi e chiedo di Tiziana. Mi rispondono tra l’impacciato e l’evasivo. Alla fine mi dicono che per ragioni di sicurezza i carabinieri l’avevano portata in un posto più sicuro. Quella era stata una misura di protezione presa perché nei giorni precedenti Tiziana aveva ricevuto minacce telefoniche: avevano tentato di terrorizzarla dicendo che le bambine sarebbero state rapite. Lei aveva avvertito immediatamente i carabinieri ma non mi aveva raccontato nulla. Io stavo lottando per vincere il mio terzo Giro e lei aveva fatto di tutto per proteggermi, per non turbare la mia serenità. Era stata straordinaria, portando le bambine al sicuro, presso alcuni parenti, e si era tenuto tutto dentro senza lasciare trapelare niente. Fortunatamente, poi, quella vicenda si concluse così: quei balordi non si fecero più sentire.

Nibali il corridore che più ti assomiglia, e tra i giovani chi ti piace?
Moreno Moser, che ha classe, scatto, va bene a crono ed è ancora molto molto giovane.

Se tu potessi tornare indietro, cosa non faresti?
Rifarei probabilmente tutto quello che ho fatto. Sono fatto così, e non si può andare contro natura. E poi, francamente, cosa dovrei cambiare? Dal ciclismo ho avuto tantissimo, forse più di quanto io abbia dato. È vero, sulla mia strada ho incontrato uno come Eddy Merckx che era meglio forse non incontrare, ma oggi penso che anche Eddy ha fatto la mia fortuna. Ne sono convinto come pochi: sono stato fortunato ad incontrare uno come Merckx. E poi dalla vita, fino ad oggi, ho avuto davvero molto. E te lo posso dire in tutta sincerità: ho settant’anni e sono felice e sereno come pochi.

Felice Gimondi è nato a Sedrina (Bergamo), il 29 settembre 1942. Dopo una brillante carriera dilettantistica culminata con la conquista del Tour de l’Avenir (1964), è passato professionista nel 1965, centrando subito un traguardo d’immenso prestigio: il Tour de France. Complessivamente, in 14 anni di carriera, Gimondi ha ottenuto 81 vittorie, cui vanno aggiunte 59 circuiti, ha vestito per 24 giorni la maglia rosa e 19 quella gialla. Questi i suoi principali successi: un Tour (1965), tre Giri d’Italia (’67, ’69 ’ 76), una Vuelta (’68), un campionato del mondo (’73), due campionati italiani (’68 e ’72), due Giri di Lombardia (’66 e ’73), una Milano-Sanremo (’74), una Parigi-Roubaix (’66), due Parigi-Bruxelles (’66 e ‘76), due Gran Premi delle Nazioni a cronometro (’67 e ’68), due Trofeu Baracchi (’68 con Aquetil e ’73 con Rodriguez), sette tappe al Giro d’Italia e sette al Tour.

* direttore di tuttoBICI e tuttobiciweb.it 

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