Fiat rimarrà in Italia e punterà sull’export per rilanciarsi

Fiat rimarrà in Italia e punterà sull’export per rilanciarsi

Fiat resta in Italia, dove non investirà fino alla ripresa economica, ma invece che puntare sul mercato interno, da domani produrrà da qui verso i mercati extra europei. Sono questi, in sintesi, gli impegni assunti formalmente da Sergio Marchionne, amministratore delegato del Lingotto, e dal presidente John Elkann al termine di una riunione a Palazzo Chigi durata cinque ore con il premier Mario Monti, il ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera, il ministro del Welfare Elsa Fornero e quello della Coesione territoriale, Fabrizio Barca, dopo l’addio a Fabbrica Italia, progetto da 20 miliardi di euro annunciato nel 2010 e mai partito veramente.  

Il Lingotto, si legge nella nota congiunta con Palazzo Chigi diramata pochi istanti fa al termine di un pomeriggio a dir poco intenso – la riunione, secondo quanto riportano le agenzie, ha avuto momenti collegiali e momenti in cui esecutivo e azienda hanno lavorato separatamente, prima di ricongiungersi per trovare una linea comune –  si impegnerà a «riorientare il proprio modello di business in Italia in una logica che privilegi l’export, in particolare extra-europeo». Inoltre, investirà in Italia «nel momento idoneo, nello sviluppo di nuovi prodotti per approfittare pienamente della ripresa del mercato europeo», dando spazio alla valorizzazione di competenze e professionalità «peculiari delle proprie strutture italiane, quali ad esempio l’attività di ricerca e innovazione». Un punto, quest’ultimo, sul quale ha insistito oggi il leader della Cisl, Raffaele Bonanni. 

Nelle prossime settimane, recita ancora la nota, Governo e Lingotto – che non manca di ricordare di aver impegnato 5 miliardi di euro negli ultimi tre anni – si impegneranno a «determinare requisiti e condizioni per il rafforzamento della capacità competitiva dell’azienda» e a organizzare un gruppo di lavoro presso il ministero dello Sviluppo Economico per individuare le strategie di rafforzamento dell’export nel settore automotive. Dalla società, pur non fornendo alcuna data precisa, fanno sapere che si partirà a metà ottobre. 

Questo per quanto riguarda le promesse. Le questioni irrisolte, infatti, non mancano: quali modelli saranno prodotti per l’export all’estero, e su quali mercati? Da questo dipende anche il futuro dei terzisti: meno valore aggiunto avranno i modelli destinati ai mercati extraeuropei, e meno margini andranno nelle tasche dei terzisti, e quindi del territorio. Un aspetto delicatissimo, basti pensare che la filiera dell’automotive in Italia occupa 2.300 imprese con un fatturato complessivo di 42 miliardi di euro e 170mila addetti. 

Stando ai piani operativi della Fiat, l’anno prossimo usciranno dagli stabilimenti italiani ben pochi modelli. Se il crossover 500X, prodotto a Mirafiori è in congelatore almeno fino a metà dell’anno prossimo, congiuntura permettendo, la Grande Punto, che prenderà forma invece a Melfi, non ha ancora una tabella di marcia definitiva. Per il 2013, dunque, le uniche certezze rimangono la nuova Maserati nel sito ex Bertone e la Fiat Bravo, basata sulla piattaforma della Fiat Viaggio, quest’ultima studiata per il mercato cinese. Cassino, invece, continuerà a sfornare l’Alfa Giulietta. Cosa cambierà con l’allargamento dell’orizzonte promesso oggi da Marchionne a Monti, Passera, Fornero e Barca? E cosa intende Marchionne per «rafforzamento all’export»? La revisione dell’accordo di libero scambio con la Corea del Sud, chiesto a gran voce da Marchionne quest’estate al commissario euopeo all’Industria Antonio Tajani, non costituisce un buon precedente in questo senso. 

Se nel corso dell’incontro di questa sera non si è parlato di cassa integrazione in deroga – per gli stabilimenti di Pomigliano, Melfi e Grugliasco – a Marchionne toccherà presto affrontare questioni sindacali in Canada. Stando a quanto riporta il sito Automotive News, infatti, i sindacati canadesi della Chrysler sono in attesa di firmare contratto collettivo, che la società considera troppo costoso se confrontato con quello dei metalmeccanici americani. Un altro fronte aperto nella complessa integrazione, ancora in fieri, tra i due marchi appoggiati sulle sponde opposte dell’Atlantico. 

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