La Banca centrale europea affronta la propria giornata campale. Come da previsioni, dovrebbero arrivare i dettagli sull’acquisto di bond governativi dei Paesi in difficoltà, come Italia e Spagna. Secondo le indiscrezioni raccolte da Bloomberg, la Bce dovrebbe orientarsi su acquisti illimitati di obbligazioni con scadenza fino a tre anni, con sterilizzazione. In altre parole, nessuna nuova creazione di moneta, per non venire meno ai Trattati europei. Se la Bce deciderà di acquistare 10 miliardi di euro in titoli italiani, dovranno essere effettuati corrispettivi aggiustamenti del portafoglio dell’Eurotower. Una mossa che, tuttavia, non troverebbe il supporto del cancelliere tedesco Angela Merkel. E che forse non basterà per tranquillizzare gli investitori.
Ma cosa vogliono i mercati finanziari? Sono davvero miopi, come detto più volte dai politici europei? Oppure hanno una base di razionalità in ciò che fanno? Guardando il breve periodo, sono tanti gli episodi in cui hanno fallito le loro previsioni. Basti pensare a quando si preventivava che il greggio potesse raggiungere i 200 dollari al barile. O a quando si era previsto che l’oro potesse superare di slancio i 2.000 dollari per oncia. Soprattutto, hanno troppa poca pazienza.
Le aspettative dei mercati finanziari in merito alle decisioni della Bce da qui alla fine dell’anno sono elevate. Come ha detto il numero uno della Bce, Mario Draghi, a inizio agosto, l’Eurotower farà di tutto per preservare l’euro. C’è da crederci, dato che senza la moneta unica non potrebbe esistere nemmeno l’istituzione di Francoforte. Ma fino a che punto i mercati sono disposti a dargli retta, almeno nel breve periodo? Come ha evidenziato un report di Barclays di venerdì scorso, è possibile che gli investitori vadano a testare presto se le parole di Draghi sono veritiere o meno. Come? Una volta fissati i dettagli del prossimo piano di acquisto titoli della Bce, vendere quel poco che è rimasto di italiano nei propri portafogli. Non solo. L’altra possibilità è quella di ridurre le offerte durante le aste dei titoli di Stato di Roma e Madrid, in modo da mettere sotto pressione Bce ed eurozona.
Cosa c’è dietro a questo comportamento, che troppo frequentemente viene chiamato speculazione? La ricerca di certezze. Infatti, una delle costanti delle analisi delle banche d’investimento nell’ultimo anno è stata proprio l’incertezza. Le risposte alla crisi dell’eurozona, dal punto di vista politico, sono state tanto lente quanto inadeguate. L’esempio è dato dagli oltre 25 vertici europei svolti dal crollo di Lehman Brothers (settembre 2008) a oggi. «È stato detto tutto e il contrario di tutto, ma non sono arrivate decisioni vincolanti nel breve termine», ha rimarcato a inizio luglio Paul Donovan, economista di UBS, subito dopo il Consiglio europeo di fine giugno. In quell’occasione si doveva tracciare la mappa per la fuoriuscita dalla crisi, a partire dal Growth pact, il piano per la crescita che nel frattempo è stato perso fra i meandri della Commissione europea.
La storia, recente e non, dell’eurozona è fatta di promesse mancate. La più grande di tutte è il salvataggio della Grecia. Dopo il primo piano da 110 miliardi varato nella primavera del 2010, è arrivata la più grande ristrutturazione del debito sovrano nella storia, nonché la prima. Sui circa 365 miliardi di euro di debito complessivo, i 206 miliardi in bond detenuti dai creditori privati sono stati scambiati con nuovi titoli. E per fortuna che quello di Atene doveva essere l’unico programma di sostegno della zona euro. Sono invece arrivati quelli di Irlanda, Portogallo e Spagna, sebbene quest’ultimo sia (per ora) limitato al solo settore bancario.
La seconda promessa mancata è il rispetto dei patti europei di stabilità e crescita. Il Trattato di Maastricht è stato più volte violato, in barba alle raccomandazioni arrivate dalla Commissione europea. Due erano i vincoli da rispettare: rapporto debito/Pil entro il 60% e rapporto deficit/Pil non oltre il 3 per cento. Sistematicamente i membri dell’eurozona hanno sforato questi paletti. E lo stesso errore si sta compiendo con il sostituto di Maastricht, il Fiscal compact. Stessi parametri, stesse violazioni. La Spagna infatti ha già comunicato che non potrà onorare questi impegni e ha chiesto di poter procrastinare al 2014 il riallineamento del rapporto deficit/Pil.
La terza riguarda i singoli Paesi e il consolidamento fiscale, unito alle riforme strutturali che, almeno in teoria, dovrebbero rendere più competitive le economie. Per un investitore internazionale è troppo rischioso allocare le proprie risorse in Paesi come Italia e Spagna. A preoccupare non è tanto il breve periodo, quanto il lungo. Nel caso di Roma, a preoccupare sono le elezioni. Chi verrà dopo il governo tecnico di Mario Monti dovrà continuare sulla linea dell’ex commissario Ue, secondo Société Générale. In alternativa, il deragliamento dei conti pubblici potrebbe essere tanto veloce quanto profondo. Della stessa opinione è anche HSBC, come ricordato in una nota di fine agosto. Di qui i rischi dell’investire in Italia. Del resto, anche la Bce ha rammentato nei giorni scorsi che aiutare l’Italia lo scorso anno è stato troppo rischioso. A rimarcarlo era stato Jörg Asmussen alcuni giorni fa: «Non possiamo ripetere gli errori fatti con l’Italia la scorsa estate, quando la Bce comprò titoli di Stato italiani e il tempo guadagnato non fu usato per le necessarie misure di aggiustamento». Già, le misure di aggiustamento. In altre parole, le riforme.
Senza le riforme non è possibile andare verso l’obiettivo che tutti sperano, ovvero la fine dell’incertezza nell’eurozona. Per farlo, occorre che la politica decida cosa vuole fare. Tre i passaggi obbligati, secondo quanto trapela dalla Commissione europea. Prima si affronta il problema della disallocazione della liquidità nell’eurozona. Paesi come Italia e Spagna, per via della rottura del meccanismo di trasmissione della politica monetaria della Bce, stanno patendo più di altri la crisi. Lo ha evidenziato al meglio un’analisi di Goldman Sachs alcune settimane fa. Per riallineare i tassi retail con quelli di rifinanziamento decisi dalla Bce si è deciso quindi che gli acquisti di bond sovrani dei Paesi periferici. Per proteggersi dai rischi evidenziati da Asmussen, membro tedesco del board Bce, tutto sarà sottoposto a un memorandum of understanding, un patto vincolante.
I mercati finanziari hanno quindi ragione? Nel breve periodo no, nel lungo sì. Tanto non vedono gli sforzi delle singole nazioni nel breve periodo quanto sono lungimiranti nell’osservare che nel lungo periodo non ci sono altre vie se non quelle di un netto consolidamento fiscale e di un radicale ridimensionamento delle economie dell’eurozona. Dato che i costi di un break-up dell’eurozona sono incalcolabili, verrebbe da dire che nessuno degli investitori vuole una disgregazione totale della moneta unica europea. Ma è altrettanto chiaro che, con questa struttura, l’eurozona non può sopravvivere. Come per i singoli Paesi membri, anche l’euro ha bisogno di riforme, di una nuova modellizzazione, di nuove regole. E dato che queste non arrivano, gli investitori scontano queste lacune durante la pianificazione degli investimenti. Un primo passo verso l’unione fiscale poteva essere l’unione bancaria, con una supervisione centralizzata data in mano alla Bce. Se tutto va bene, vedrà la luce nella sua totalità solo dal primo gennaio 2014, come sottolineato dal commissario Ue al Mercato interno Michel Barnier. Un’altra occasione mancata, un altro motivo per gli investitori per non dare fiducia all’eurozona.