Esiste ancora il mercato? A guardare i bilanci delle principali banche italiane, sembra sia stato spazzato via dalla crisi europea. Il 2012 doveva essere l’anno del deleveraging, la riduzione del perimetro delle attività. E in effetti i principali istituti di credito, cioè i soggetti che assieme a Fiat, Eni ed Enel hanno la potenza di fuoco per influenzare l’andamento del listino italiano in un senso o nell’altro, hanno varato un piano di razionalizzazione, da Unicredit a Intesa Sanpaolo, dal Monte dei Paschi a Ubi, fino alle Generali. Una mossa necessaria per riacquistare credibilità agli occhi degli investitori esteri, spaventati dall’aumento degli interessi sul debito pubblico italiano. Eppure, a dispetto delle riduzioni del personale, del taglio alle filiali, della vendita delle partecipate non strategiche, gli attivi sono aumentati rispetto al 2011, e non certo perché le banche oggi concedono più prestiti a famiglie e imprese. I loro libri sono infatti gonfi di titoli di Stato. Curiosamente, il redde rationem all’interno dell’asse Mediobanca-Generali-Rcs, il famigerato “salotto buono”, sta prendendo forma proprio in un periodo in cui la redditività delle banche dipende in larga parte da Mario Draghi, oltre che dalla preparazione dei propri manager.
L’ultimo bollettino della Bce parla chiaro: al 31 luglio scorso gli attivi bancari sono saliti del 7% a quota 34.400 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo del 2011. La ragione sta nelle due aste di rifinanziamento triennale a un tasso agevolato dell’1% messe in campo dalla Bce stessa per sventare sul breve termine un credit crunch derivante dal congelamento del mercato interbancario. Il patto era chiaro: il rubinetto si apre soltanto se in cambio si acquistano titoli di Stato, abbassando in questo modo il loro tasso d’interesse, per ridare ossigeno alle finanze pubbliche. La strategia ha funzionato, ma ora inizia a palesarsi il rovescio della medaglia: cosa succederà quando andranno a scadenza i bond acquistati e dovranno essere rinnovati?
Autonomous research, società di ricerca indipendente con sede a Londra, calcola che nei primi sei mesi dell’anno l’aumento dei titoli di Stato nei bilanci delle banche italiane è stato di 85 miliardi di euro. Due esempi. Al 30 giugno scorso, Unicredit aveva in pancia titoli italiani per un valore di libro di 40 miliardi di euro, con una vita media di 2,96 anni, rispetto ai 35 miliardi di fine 2011. Stesso discorso per Intesa Sanpaolo, il cui amministratore delegato, Tommaso Cucchiani, da Cernobbio ha affermato di voler continuare a sostenere le emissioni del Tesoro. A fine giugno Ca de’ Sass deteneva bond per 80 milioni di euro, con una vita media soltanto di 1,7 anni, rispetto ai 60 del 2011. Il risultato? Gli asset totali di Intesa sono saliti a 666 miliardi di euro (+3% sul 2011), quelli di Unicredit 955 miliardi (+4% sul 2011).
È però il Monte dei Paschi il caso emblematico della scomparsa del mercato da Piazza Affari. La banca senese, che ha mantenuto costante a quota 25 miliardi la sua esposizione nei confronti dei titoli sovrani italiani rispetto al 31 dicembre 2011, non solo in passato ha sottoscritto i “Tremonti bond” per 1,9 miliardi, ma di recente è stata anche salvata – grazie a un decreto del governo Monti – con un’iniezione di altri 2 miliardi di euro. E non è finita: il suddetto decreto prevede che il Tesoro possa ricevere, al posto degli interessi su questi 2 miliardi, azioni dell’istituto di credito al posto degli interessi. E come se non bastasse, nell’ultimo trimestre la perdita operativa è stata di 26 milioni di euro.
In questo momento, più che fare il loro mestiere, gli istituti di credito sono dei salvadanai per le obbligazioni di via XX Settembre. Il carry trade con i prestiti agevolati – uso il denaro all’1% per acquistare sul mercato Btp che rendono il 5%, quindi il mio guadagno è 4% – come dimostra l’aumento dell’esposizione di Intesa Sanpaolo, è una strategia messa in campo da tutti. E contemporaneamente è una scelta per certi versi obbligata dalla progressiva balcanizzazione delle economie comunitarie a cui fa riferimento Mario Draghi quando parla di “rottura del meccanismo di politica monetaria”.
Famiglie e imprese, invece, rimangono a secco. Lo scorso luglio, secondo i dati di Bankitalia, il tasso di crescita dei prestiti al settore privato è salito dello 0,5%, rispetto allo 0,2% registrato a giugno, mentre quello dei prestiti alle famiglie si è contratto dello 0,6% rispetto allo 0,8% di giugno. I prestiti alle famiglie e imprese della divisione F&Sme di Piazza Cordusio sono scesi da 124 a 121 milioni di euro nello stesso lasso di tempo (129 milioni nel primo semestre 2012), mentre quelli della Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo sono aumentati di poco, da 183 a 187 milioni di euro. Il trend è comune a tutta Europa: i prestiti a famiglie e imprese a fine luglio erano scesi a quota 18.500 miliardi di euro (dati Bce) rispetto ai 18.600 del 31 dicembre 2011. Ad aumentare, invece, sono le sofferenze. I numeri dell’Abi, l’associazione bancaria italiana, non lasciano spazio a dubbi: a luglio i crediti dubbi sono saliti a 114 miliardi di euro, con un incremento annuo del 15,4%, e un peso sugli impieghi del 5,7 per cento.
Dopo le due aste Ltro, l’ultimo salvagente lanciato da Draghi per calmierare lo spread è l’acquisto illimitato da parte della Bce di bond sovrani nella parte breve della curva, cioè con una scadenza fino a tre anni (Omt). Per le banche italiane, che hanno trainato il rally agostano del Ftse Mib, il principale listino di Piazza Affari, proprio grazie alla discesa del differenziale con il bund tedesco (per motivi “tecnici”: i bond stanno nel portafoglio delle attività disponibili per la vendita), lo scenario non cambierà. Se gli effetti dell’Omt sulla curva dei rendimenti, infatti, sono stati simili a quelli del primo Ltro, una discesa dei tassi potrebbe comportare minori profitti da carry trade quando si vanno a sostituire i titoli a scadenza. In altre parole: la Bce fa e la Bce disfa. Si chiama Europa, e invece si ostinano a chiamarlo mercato.
Twitter: @antoniovanuzzo