Islanda, l’isola delle donne: le quote rosa sono già realtà

Islanda, l’isola delle donne: le quote rosa sono già realtà

Si dice che le donne islandesi debbano la loro tempra ai tempi in cui i mariti salpavano a lungo per mare e toccava a loro restare sulla terra ferma a tenere le redini di casa e famiglia. Abituate alla solitudine, in quello che ancora oggi con i suoi nemmeno 320.000 abitanti è il paese meno popolato del continente europeo, le islandesi hanno imparato a essere forti e a farsi valere. Così mentre in Europa fa discutere la proposta di Viviane Reding, commissario europeo per la Giustizia, i Diritti fondamentali e la Cittadinanza, di introdurre nei Paesi dell΄Unione una presenza femminile obbligatoria del 40% ai vertici delle società quotate e di quelle pubbliche, sull΄isola di ghiaccio e fuoco il governo si appresta a introdurre nel 2013 una nuova legge che obbligherà le imprese private con più di cinquanta dipendenti ad avere almeno il 40% di quote rosa nei suoi consigli di amministrazione. Sì, perché per quanto riguarda il settore pubblico, la svolta si era già avuta nel 2008, quando per la prima volta venne introdotta una norma per garantire la presenza femminile ai vertici delle aziende statali.

Da sempre all΄avanguardia nel riconoscimento di una effettiva uguaglianza fra uomini e donne, l΄Islanda vanta una serie di normative che la rendono un Paese a portata di donna. Prima fra tutte la legge sulla paternità che, già in vigore da nove anni, concede sia alle madri che ai padri un periodo di tre mesi a casa dal lavoro e altri tre mesi che i due genitori possono dividere fra loro per accudire i figli nelle prime fasi di vita. La normativa, di cui nel 2009 hanno beneficiato più dell΄85% dei padri, rende così uomini e donne pari davanti alla possibilità di essere assunti, senza che nessuna donna rischi di essere discriminata perché potrebbe assentarsi dal lavoro a causa di una gravidanza. C΄è poi la legge contro il maltrattamento che, seguendo il modello austriaco, prevede che sia l΄aggressore a dover abbandonare il proprio domicilio e che non sia quindi la vittima a essere trasferita in un rifugio

Come in Gran Bretagna, dal 1961 è stata introdotta una norma sulla parità salariale, per garantire lo stesso stipendio a lavoratori e lavoratrici che occupano la medesima posizione. Nonostante i passi avanti compiuti, l΄equità salariale rappresenta ancora motivo di dibattito: l΄applicazione della legge infatti non ha ancora del tutto ottenuto i risultati sperati e spesso le donne recepiscono stipendi che vanno dall΄8% al 16% in meno di quelli dei loro colleghi. A tale riguardo, è ancora viva nella memoria la manifestazione che nel 2010 ha portato 50mila donne, ovvero un terzo del totale del Paese, a scendere in piazza per rivendicare i propri diritti. O ancora l΄iniziativa del sindacato dei commercianti e degli impiegati che hanno promosso una campagna di sconti del 10% ma solo a favore delle donne, proprio in virtù delle loro buste paga inferiori.

Le islandesi sono abituate a scendere in strada per far sentire la loro voce: Il 25 ottobre del 1975, data storica per la memoria collettiva islandese, il gruppo femminista Calze Rosse indisse uno “sciopero delle donne”, portando il 90% della popolazione femminile a incrociare le braccia e non lavorare, mentre in 25mila si riversarono nelle strade di Reykjavik per protestare. «Non era mai accaduto prima che tante donne scendessero in piazza – racconta Guðrún Hallgrímsdóttir, 71 anni, femminista della prima ora – Ai tempi le donne erano utilizzate come forza lavoro aggiuntiva, per esempio nel settore ittico venivano chiamate quando la pesca era particolarmente abbondante e occorrevano braccia in più. Allora le donne però continuavano a vedersi per lo più nel ruolo di casalinghe. Quel giorno siamo riuscite a mostrare quanto importante fosse il loro lavoro».

La grande forza del movimento femminista nel Paese ha sicuramente fatto dell΄Islanda una pioniera della partecipazione femminile in politica: oggi sono donne il primo ministro, Jóhanna Sigurdardóttir, che tra l΄altro ha dichiarato la propria omosessualità, il 43% dei parlamentari e il 40% dei membri delle amministrazioni comunali. L΄isola vanta inoltre di avere avuto il primo capo di stato donna al mondo: nel 1980 Vigdís Finnbogadóttir, madre single, venne eletta alla guida del Paese. Da allora la strada percorsa è stata tanta: all΄inizio del suo mandato le deputate al parlamento islandese rappresentavano solo il 5%, oggi sono quasi la metà.

Nel 2008, in seguito alla crisi finanziaria che ha portato al fallimento delle principali banche locali, il Paese ha intrapreso una vera e propria analisi di coscienza, che ha portato non solo a mandare a casa il governo conservatore in carica da 17 anni e a sostituirlo con una coalizione di socialdemocratici e sinistra ecologista, guidata appunto dalla Sigurdardóttir, ma anche a chiamare alla guida dell΄Islandsbanki, uno degli istituti di credito responsabili del crac, proprio una donna. Nel Paese si sono diffuse teorie sulla necessità di introdurre una prospettiva femminile all΄interno dell΄economia, che sostengono come il modello sino ad allora dominante abbia portato allo sfacelo. «Il Paese andò a picco, tra gli altri motivi, perché i consigli di amministrazione delle imprese erano formati da un gruppo chiuso di giovani uomini tutti uguali fra loro: provenivano dagli stessi ambienti, erano stati educati nelle stesse università. Questa omogeneità è stata molto dannosa per la nostra economia» commenta Olafur Stephensen, direttore del Fréttablaðið, il più noto quotidiano islandese. Sono nate così iniziative come Audur Capital, un΄agenzia indipendente di servizi finanziari d΄investimento che propone l΄introduzione di valori femminili nel mondo della finanza, come la “coscienza del rischio” o il “capitale emozionale”.

Non tutti però sono d΄accordo con Stephensen e anche all΄interno di quello che Newsweek ha proclamato il miglior Paese al mondo per essere donna c΄è chi ritiene che queste “prospettive rosa” siano prive di fondamento. «Nel settore finanziario c΄erano già molte donne e in ogni caso le cause del fallimento sono da imputare alle cattive decisioni, non certo alla mancanza di una visione femminile» sostiene Sigrídur Andersen, avvocato e vice deputata del conservatore Partito dell΄Indipendenza, contraria anche alle quote rosa: «Lo Stato non può stabilire chi debba sedere nei consigli di amministrazione, senza contare che così gli effettivi meriti delle donne saranno sempre messi in discussione». Può darsi che Andersen abbia ragione, come del resto può darsi che l΄introduzione delle quote rosa, già esistenti in Islanda e oggi al vaglio dell΄Unione europea, rappresenti essa stessa una violazione del principio di meritocrazia. D΄altro canto però, non si può ignorare che la presenza femminile ai vertici aziendali ha registrato un aumento dello 0.6% negli ultimi anni e che, di questo passo, come sottolineato dalla commissaria europea Riding, occorrerebbero ancora 40 anni prima che anche in Europa vi sia una situazione di equilibrio fra i generi. Forse sono troppi. Forse è arrivato il momento di spingere sull΄acceleratore.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter