L’economia israeliana, secondo i dati ufficiali, è in salute: nel 2011 è cresciuta del 4,7% e le previsioni per il 2012 sono del 2,7%. Eppure, i costi abitativi sono aumentati del 40% tra il 2009 e il 2011, mettendo in difficoltà le famiglie a reddito fisso. Tel Aviv ricorda sempre di più Londra, con una pletora di piccoli lavoratori dediti alla sopravvivenza urbana, e un’élite ristretta di proprietari immobiliari e manager altamente specializzati, che attraggono a sé la maggior parte dei benefici dei record economici. L’inflazione mette a rischio le pensioni: qualcosa alla quale i giovani, peraltro, sembrano aver rinunciato.
A questo si aggiungono le conseguenze di un piano di austerità fiscale che Bibi ha voluto-dovuto introdurre per prevenire gli effetti della recessione europea. È stato deciso di portare l’Iva dal 16 al 17%, di aumentare le tasse su sigarette e benzina, e di applicare un taglio netto alla spesa pubblica e ai budget ministeriali. È stato sufficiente perché la sua popolarità piombasse al 31% – il livello più basso del suo mandato. Nonostante questo, sembra che il deficit statale potrebbe raggiungere quest’anno il 4%, rispetto alle previsioni del 2%.
L’idea di molti israeliani, cioè, è che Bibi abbia scelto di continuare a remunerare le élite, facendo scontare al resto della popolazione gli effetti della crisi, costringendo i cittadini a pagare più tasse. Ha subito critiche anche da Shaul Mofaz, leader della formazione Kadima, che fino a metà luglio è stata parte di un effimero “governo di unità nazionale” con il Likud di Bibi (Kadima è nato da una scissione nel Likud guidata da Ariel Sharon nel 2005). Per Mofaz, l’obbiettivo di Bibi è «uccidere la classe media… dopo aver voltato le spalle ai dipendenti pubblici e alla classe media, Netanyahu mostra loro il dito medio». Ha aggiunto Moshe Gafni, presidente della commissione finanze della Knesset, che «l’economia israeliana è forte, ma la classe media soffre e ci sono seri problemi sociali. La stabilità economica è importante, ma la stabilità sociale è ugualmente importante».
Bibi è alla ricerca di un’azione spettacolare che possa avere sul paese un effetto di galvanizzazione nazionale, sul modello di ciò che la guerra nelle Falkland fece per la popolarità in picchiata della Thatcher. Il problema, però, è che la classe media non si fida più di Bibi. Chi protesta a Tel Aviv, per esempio, ritiene che una manovra analoga sia stata adottata in occasione della liberazione del soldato Gilat Shalit: ritengono che il premier avesse avuto per mesi l’opportunità di farlo tornare a casa, ma che sia stato scelto il momento politicamente più appropriato. Quando Shalit ha riabbracciato i suoi cari, è iniziata la repressione di Occupy Tel Aviv.
Poiché ha perso il sostegno della base, Netanyahu sta cercando adesso di negoziare consensi separati con gruppi d’interesse organizzati. Alla base del crollo del governo di unità nazionale con Mofaz, per esempio, c’è stato un disaccordo su alcune leggi che riguardavano gli ebrei ultra-ortodossi. Si tratta di ormai 700.000 persone, dalla scolarizzazione “particolare” (spesso non c’è la matematica), con vie privilegiate per evitare il servizio militare di tre anni per gli uomini e di due per le donne (la “Tal Law”). Il 60% di essi vive sotto la soglia di povertà e non lavora. Mofaz voleva introdurre un piano rapido di coscrizione militare, mentre Bibi preferiva negoziare. “Tipico Bibi” è il refrain che accompagna ormai il suo mandato: ha preferito ascoltare il leader degli ultra-ortodossi, Meir Porush, che con linguaggio da salafita minacciava la “guerra civile”.
Così, la barzelletta nazionale è che ormai in Israele un terzo delle persone presta il servizio militare, un terzo lavora, e un terzo paga le tasse – solo che si tratta sempre dello stesso terzo. La minaccia di guerra all’Iran sembra sempre più il “believe me” di Colin Powell alle Nazioni Unite, quando l’amministrazione Bush cercava di convincere il mondo che Saddam Hussein nascondesse armi di distruzione di massa in Iraq. In assenza della prova definitiva sullo stato del programma nucleare iraniano, saranno i fattori interni a condizionare la decisione. Se l’eventualità di successo è alta, la probabilità di attacco è alta – e in Israele si vocifera che l’aviazione potrebbe impiegare per la prima volta nella storia mini-testate nucleari a penetrazione, tanto per essere più sicuri.
C’è poi l’effetto del collegamento con gli Stati Uniti. Gli israeliani percepiscono sempre più di essersi rinchiusi in un isolamento politico e mediatico dal quale devono necessariamente risalire. I rapporti tra Bibi e Barack Obama sono sempre stati pessimi, eppure nel corso dell’ultima visita rilevante del premier israeliano a Washington la sua popolarità è salita di molto. Rimane però il fatto che Netanyahu critica l’atteggiamento di semi-indifferenza degli americani per la questione palestinese, insieme al fatto che nel corso degli ultimi interventi a Gaza i media americani abbiano preferito far trasparire solo la versione di Hamas delle varie storie.
Paventare un intervento in Iran è, in questo senso, un messaggio agli Stati Uniti: Bibi minaccia Obama in chiave elettorale. Chiaramente, attaccare l’Iran sarebbe un “muoia Sansone” dal futuro incerto, ma serve per ribadire la centralità d’Israele nel mantenimento dell’equilibrio nel quadrante: denuncia il fatto che, per la destra israeliana, Washington ha scelto di non assegnare al paese ebraico un ruolo attivo nella questione delle rivolte arabe, fino a non schierarsi in occasione delle spericolate avventure neo-ottomane della Turchia.
Eppure, c’è chi sostiene una linea diversa. Il professor Efraim Inbar, esperto di temi di sicurezza all’Università Bar Ilan presso il Begin-Sadat Center for Strategic Studies, ritiene che un attacco di successo sia possibile anche con armi convenzionali, e che «gli Stati Uniti sarebbero contenti se l’operazione riuscisse, visto che Israele completerebbe il lavoro sporco al posto loro, e non se ne dovrebbero addossare il peso politico». Insomma, il messaggio di Bibi è che Obama deve schierarsi nella crisi, e sta cercando di far leva sulla crisi per portarlo allo scoperto.
Obama ha compreso bene il messaggio, e ha reciprocato a tono. Ogni anno si tiene in Israele l’esercitazione militare congiunta “Austere Challenge”, che quest’anno arriva alla dodicesima edizione. Gli Usa dovevano spedire 5.000 soldati: si sono limitati a 1.500, mentre l’operazione è stata fatta slittare di un paio di mesi fino a ottobre – e forse gli americani saranno solo 1.200. Geniale anche la trovata di Washington di spedire batterie antimissilistiche Patriot, come ogni anno, ma stavolta senza operatori. Sembra, insomma, che insieme al processo di pace israelo-palestinese, debba essere avviato anche quello israelo-americano.