Molti osservatori della saga del debito sovrano europeo si sono da tempo resi conto che la Bce è l’unica istituzione europea all’altezza del compito di evitare una rottura della Eurozona, poiché tutte le istituzioni di recente creazione, i fondi Esfs / Esm, sono stati allo stesso tempo mal congegnati e dotati di risorse finanziarie inadeguate (1). Tuttavia, nell’indulgere in aspre critiche alla Germania per il suo approccio “a piccoli passi” e ritardatario, gli stessi osservatori paiono spesso dimenticare che la Bce è stata creata “ad immagine e somiglianza” della Bundesbank, con la stabilità dei prezzi come mandato pressochè esclusivo e divieto esplicito di monetizzazione del debito pubblico degli stati membri. Questo è stato il prezzo da pagare per convincere la Germania a rinunciare al Marco, e per indurla a condividere la stessa moneta con un paese incline a deficit e inflazione come l’Italia.
Ora che la sopravvivenza dell’Euro sembra dipendere dalla monetizzazione del debito pubblico degli stati del Sud Europa, che sia tramite acquisti sul mercato primario o secondario, o con interventi anti-spread poco importa, non è sorprendente che la Bundesbank, sostenuta dai partiti Fdp e Csu , dica semplicemente «no». Le dimissioni minacciate e poi rientrate del governatore Weidman ne sono l’esemplificazione.
Draghi ha quindi un problema: non tanto con la Bundesbank, che non ha la maggioranza in consiglio direttivo della Bce, ma con Angela Merkel, che non può permettersi di rischiare una spaccatura della sua coalizione di governo, concedendo ai suoi avversari interni un alleato prezioso come la Bundesbank, e rischiando l’accusa di allearsi con il “falsario” italiano Draghi, secondo la definizione del segretario generale della Csu, contro gli interessi del popolo tedesco. Per fortuna la signora Merkel sembra rendersi conto che, se non sostenesse Draghi, rischierebbe di essere ricordata come la leader europea che ha sepolto l’ Euro, con elevatissimi costi anche per i contribuenti tedeschi. Come uscire da questo dilemma?
Finora Draghi ha cercato di tenere alla larga queste tensioni politiche, pagando “a parole” il tributo (lip-service) alla condizionalità collegata ad un eventuale intervento Efsf/Bce (il cosiddetto “promemoria di intesa” i cui dettagli sono comunque già specificati nello statuto Efs). È molto improbabile che ciò basti a soddisfare la Buba e i suoi alleati. Una strategia più ragionevole sarebbe quella di presentare il problema per quello che è ormai diventato: un rischio per l’economia globale, non più esclusicamente un problema europeo. Basta guardare all’impatto negativo sulla crescita globale e sulla disoccupazione in Europa e negli Stati Uniti (si veda il recente aggiornamento al World Economic Outlook dell’Fmi), per non parlare del potenziale effetto dirompente globale di un default disordinato in Spagna e in Italia. La Bundesbank potrebbe trovare molto più difficile esimersi dalle sue responsabilità internazionali.
Un problema globale richiede una soluzione globale. I recenti episodi di coordinamento della politica internazionale risalgono agli anni Settanta, quando in occasione del vertice di Bonn del 1978 i leader del G7 concordarono un ambizioso (ed efficace) piano di coordinamento fiscale e monetario, al fine di ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti verso la Germania e il Giappone, e di sostenere la crescita: reflazione fiscale in Germania, i tagli di imposte in Giappone e una moderata stretta monetaria negli Stati Uniti raggiunsero gli obiettivi. Uno degli esempi più recenti di coordinamento delle politiche monetarie è stato quello dell’ottobre 2008, quando la Federal Reserve, in collaborazione con altri cinque grandi banche centrali – la Banca del Canada, la Bank of England, la Bce, la Sveriges Riksbank, la Banca nazionale svizzera , con l’appoggio della Banca del Giappone – annunciò una riduzione generale dei tassi di interesse e l’apertura di nuove linee di credito tra banche centrali (2). L’intervento aveva due scopi: si voleva da un lato contrastare il rallentamento economico delle rispettive economie, anche perché, come oggi, si era in assenza di pressioni inflazionistiche; dall’altro occorreva far fronte alla scarsità di finanziamenti in dollari fuori dagli Stati Uniti, dovuta al fatto che molte istituzioni finanziarie europee avevano concesso prestiti in dollari alle imprese americane, e, avendo anche investito in titoli strutturati (Abs) americani, erano state duramente colpite dalla crisi dei subprime.
Oggi, gli spazi per la cooperazione internazionale delle politiche fiscali sono limitati: è tempo per un altro giro di coordinamento delle politiche monetarie, con la Bce (o le Esfs) che si impegna in modo credibile a mantenere i rendimenti del debito sovrano all’interno di “ragionevoli” bande di oscillazione, anche tramite interventi congiunti di altre banche centrali, e la Fed che intraprende un nuovo ciclo di operazioni non convenzionali al fine di ridurre i rendimenti reali a lungo termine. Questa strategia potrebbe produrre rilevanti vantaggi economici, e, questa volta, anche grandi dividendi politici.
(1) Vedi Paolo Manasse, The problem with the Esm, voxeu.org
(2) Vedi Bernanke