La giustizia italiana, quell’enorme spreco di soldi pubblici

La giustizia italiana, quell’enorme spreco di soldi pubblici

Una antica e cronica carenza di infrastrutture domina il pianeta giustizia. Accanto ai ritardi e all’ostinata persistenza di una mentalità burocratica in molti aspetti della sua organizzazione, è la mancanza di strumenti essenziali e di risorse professionali a determinare lo stato di arretratezza di un comparto nevralgico per le prospettive economico-sociali di un paese moderno. Con il risultato, inevitabile, dell’accumulo di una montagna di procedimenti pendenti, la grandissima parte dei quali destinati a restare senza risposta. È in una simile realtà che dovranno essere realizzati i tagli drastici previsti dalla spending review del governo Monti, orientati a conseguire un profondo risanamento dei bilanci e a disegnare una distribuzione razionale delle poche risorse disponibili. Se le ragioni ispiratrici dell’iniziativa messa a punto da Palazzo Chigi sono ampiamente giustificate, nell’universo giudiziario hanno resistito e permangono contro ogni logica contraddizioni intollerabili e sprechi di denaro pubblico.

A emergere in maniera clamorosa e paradigmatica, anche perché fino a oggi avvolte nel silenzio e cristallizzate all’interno delle istituzioni, sono le spese enormi che ogni anno fino al 2011 i tribunali italiani hanno dovuto sopportare per pubblicare sugli organi di stampa le sentenze di condanna per una serie di reati. È bastato recarci nella sede del più grande distretto giudiziario d’Europa, quello di Roma, per comprendere le dimensioni di uno scandalo superato solo grazie alla manovra finanziaria realizzata l’estate dell’anno scorso dal governo Berlusconi. Una legge concepita nel 1941, e più volte rinnovata, per garantire il diritto d’autore e difendere l’intangibilità delle opere dell’ingegno stabiliva fino a pochi mesi fa che le condanne per i crimini legati alla contraffazione di creazioni e prodotti letterari, teatrali, musicali, televisivi, cinematografici, informatici, venissero rese pubbliche in un giornale di grande tiratura e in un periodico specializzato.

Così poteva capitare di leggere sul Messaggero e su Repubblica brevi estratti di provvedimenti dei giudici contro chi avesse riprodotto e duplicato abusivamente cd e dvd a scopo di lucro, o avesse venduto merce priva del timbro Siae. Erano le strutture del tribunale ad anticipare il pagamento delle inserzioni giudiziarie sulle testate giornalistiche: avrebbero potuto recuperare quella cifra rivalendosi sulla persona condannata. La finalità giuridica e filosofica di questa norma si inseriva nel clima storico-culturale dell’epoca in cui venne concepita. Accanto alla sanzione penale e di risarcimento si voleva infliggere una condanna di tipo sociale, isolando e screditando chi si appropriava illegittimamente delle opere degli altri. L’apparizione della sua identità sui mezzi di informazione era orientata a provocare una generale recriminazione ne suoi confronti e doveva favorire un processo di ravvedimento e reinserimento nel consesso civile.

Allora però i colpevoli erano quasi esclusivamente cittadini italiani, facilmente rintracciabili e individuabili: e non era difficile per lo Stato riuscire a recuperare le somme pagate ai giornali. Una differenza enorme rispetto a oggi, quando l’80 per cento delle persone condannate per simili reati sono immigrati spesso irregolari, che in genere si rendono irreperibili, vivono senza fissa dimora, non sono censiti in anagrafe, o sono stati espulsi dal territorio nazionale. In questi casi recuperare le risorse spese dall’Erario diventava impossibile. E molto complicato lo era verso la stessa criminalità italiana, perché chi si dedica a questi reati in modo permanente non ha nessun bene intestato e non presenta patrimoni da aggredire o risorse pignorabili. Se poi pensiamo che i responsabili di contraffazione e violazione del diritto d’autore tendono a essere recidivi e che le loro numerose condanne dovevano comparire tutte sugli organi di stampa, il flusso di denaro pubblico letteralmente gettato al vento fino al termine del 2011 acquista dimensioni rilevanti.

L’estratto di un’inserzione giudiziaria costava fra i 1.400 e i 3.600 euro, e il prezzo per la “pubblicità” del casellario penale di un recidivo poteva sfiorare i 25mila euro. Al tribunale della Capitale hanno calcolato per il 2011 un ammontare complessivo di spesa pari a 350mila euro, e di 600mila per l’anno precedente. Sommando le uscite degli altri principali distretti giudiziari, soprattutto di quelli come Napoli e Milano dove è più capillare la diffusione sociale dei crimini di commercio abusivo di prodotti musicali e cinematografici, si è registrato fino all’anno passato un inutile dispendio per milioni di euro.

Uno spreco intollerabile dal punto di vista economico, tanto più grave se messo a confronto con il fabbisogno di strutture, strumenti e risorse fondamentali per un funzionamento corretto del servizio giustizia. Soltanto nel tribunale di Roma la necessità di materiale di cancelleria ammontava nel 2011 a 700mila euro. E rispetto a tale fabbisogno le risorse effettive stanziate hanno raggiunto la cifra di 86mila euro. Nello stesso periodo, a fronte di una domanda di 900mila euro per far funzionare 2.000 computer, fax e fotocopiatrici con carta e toner, le somme disponibili hanno sfiorato i 330mila euro. Non dimentichiamo poi che nelle strutture giudiziarie capitoline sono impiegati attualmente 200 lavoratori precari “retribuiti” con un rimborso spese mensile di 220 euro e privi di una prospettiva concreta di stabilizzazione. Oltre all’intollerabile spreco finanziario e funzionale, vi era l’assoluta irrilevanza dal punto di vista civico degli annunci pubblicati: brevissimi e anonimi trafiletti confinati nelle ultime pagine della testata, che difficilmente venivano letti.

Per completare un quadro che richiama il “teatro dell’assurdo”, è emersa negli ultimi mesi un’eclatante contraddizione, una schizofrenia legislativa contraria al valore della certezza del diritto. L’articolo 36 del Codice penale varato dal giurista nazionalista e fascista Alfredo Rocco nel 1930, che costituisce la cornice di riferimento dell’istituto della pubblicazione delle sentenze di condanna, nell’estate del 2011 ha visto l’abrogazione dell’obbligo di inserzione sugli organi di stampa e l’inserimento di un loro estratto sul sito on line del Ministero di giustizia. Solo a questo punto ha perduto ogni valore una norma culturalmente arcaica, non più aderente alla realtà penale contemporanea, inefficace e giuridicamente incoerente. Una norma dispendiosa e mortificante per il servizio giustizia, che ha giocato un ruolo non indifferente nel vanificare risorse economiche preziose e oggi lascia tracce visibili nelle arretratezze strutturali del palazzi del diritto.

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