«We were bankers». Erano banchieri, ma non come tutti gli altri. Erano il meglio del meglio. Erano a Wall Street. Si credevano invincibili. Si rivelarono vulnerabili, come tutti. Gli uomini di Lehman Brothers, la quarta banca statunitense, finita a gambe all’aria il 15 settembre 2008, erano così. Eppure erano bravi, talmente bravi che, spiega l’Harvard Business Review, il 92% di essi ha trovato un altro lavoro entro sei mesi dal peggiore crac finanziario che Wall Street ricorda. Nessuno credeva che un gigante come Lehman potesse fallire. È successo ugualmente. E in quel giorno, qualcosa si è andato in frantumi. Come disse George Soros, forse il finanziere più influente, «il 15 settembre 2008 Wall Street ha scoperto che il giocattolo si è rotto e si è scoperta fragile».
Con il fallimento di Lehman Brothers inizia il periodo in cui l’ordinario lascia spazio allo straordinario. Arrivarono i programmi straordinari di governo e Federal Reserve, il Term Asset-Backed Securities Loan Facility (Talf) e il Troubled Asset Relief Program (Tarp), poi iniziarono gli stimoli economici, gli allentamenti quantitativi, o Quantitative easing. L’America viene tenuta in piedi dai dollari di nuova stampa, erogati dal centro verso la periferia. La Fed stampa ancora e ancora. Il suo chairman, Ben Bernanke, ha studiato a fondo la crisi del 1929 e cerca di evitare gli errori fatti da Roy A. Young, numero uno della Fed dal 1927 al 1930. Bernanke per tre anni stampa con una mano e con l’altra cerca di tenere sotto controllo l’inflazione. Ci riesce. L’economia americana torna a crescere, seppure con fatica. E poi arriva la crisi europea. Dopo anni di crescita basata sui debiti e incurante degli squilibri interni, l’eurozona scoppia. La prima a saltare è la Grecia. Poi il contagio arriva a Irlanda e Portogallo. Poi Italia e Spagna. L’euro traballante preoccupa Washington, come anche il rallentamento della fabbrica del mondo, la Cina. E infine arriviamo ai giorni nostri, con la Federal Reserve costretta a pompare nuovamente denaro nel sistema. È il QE3, il Quantitative easing versione 3. Ogni mese saranno comprati miliardi su miliardi di dollari per stimolare l’economia.
Il mondo nuovo del dopo Lehman Brothers è qualcosa di indecifrabile. Il Too-big-to-fail, il concetto secondo cui una banca può essere troppo grande per fallire, è ancora valido. Del resto, il Financial stability board (Fsb), il guardiano finanziario globale, ha coniato una categoria a parte per determinate istituzioni finanziarie. Si tratta delle Systemically important financial institution (Sifi), ovvero le banche, le società finanziarie e le compagnie assicurative troppo grandi per fallire. Fra queste, solo un’italiana, UniCredit. Solo che l’abbraccio mortale fra banche e politica ha trasferito il Too-big-to-fail dagli istituti di credito agli Stati. E in tutto questo calderone, Wall Street conta ancora troppo. Gli scandali si susseguono, le esagerazioni avanzano, il potere non diminuisce. Cambiare tutto per non cambiare nulla. Tanto più si cerca di imbrigliare la finanza, quanto più questa cerca nuove vie per espandersi. La ricchezza si sposta, vaga, si adatta. E per capire il motivo di ciò, bisogna tornare indietro di quattro anni, quando il mondo dovette confrontarsi con qualcosa con cui non aveva fatto i conti.
La settimana prima all’iscrizione di Lehman Brothers al Chapter 11 dello US Bankruptcy Code, la legge fallimentare statunitense, l’amministratore delegato Dick Fuld fece carte false per salvare la società. Ci provò con il Temasek di Singapore, con la coreana Korean Development Bank, con Bank of New York Mellon, Wells Fargo, Nomura, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Le telefonate continuarono a lungo, fino a quando non arrivò il momento di chiamare Barclays. L’obiettivo era tanto semplice quanto doloroso: svendere la quarta banca statunitense agli inglesi. Nemmeno questa soluzione funzionò. Fuld prese il telefono per l’ultima volta. Stava chiamando Henry Paulson, a quel tempo Segretario del Tesoro, con un passato pesante in Goldman Sachs. L’evidenza dei fatti era schiacciante. Nemmeno con un prestito ponte era possibile ripianare i debiti contratti da Lehman. Come ha scritto Lawrence McDonald, vice president della società e autore del bestseller “A Colossal Failure of Common Sense”, «nessuno di noi era a conoscenza della reale esposizione della banca sui prodotti comprati». Tutto era in mano al direttore finanziario, Erin Callan, che rapportava direttamente a Fuld. Uno dei pochi che riuscì a cogliere quanto era grosso il buco di Lehman Brothers fu David Einhorn, fondatore del fondo hedge Greenlight Capital. Durante una teleconferenza a metà luglio 2008 fra Einhorn e la Callan, il primo si prese gioco di lei, rammentandole che il suo lavoro era quello di far quadrare i conti, non di frodare gli azionisti. La Callan rassegnò le dimissioni dopo pochi giorni. Lehman Brothers era già spacciata. Ma Fuld, complice l’azzardo morale derivante dal salvataggio di Bear Stearns, continuò a far finta di nulla. Nel frattempo, più il tempo avanzava, più il buco di bilancio cresceva. Abs, Cds, Rmbs, Cdo: tutto era in rosso. Secondo McDonald «solo il 5% degli asset aveva un valore mark-to-market positivo». Inutile andare avanti con la farsa. Nessuna società sarebbe potuta sopravvivere senza un salvataggio. Se stai sul mercato e sbagli, paghi. Non ci sono alternative. Ma se sei troppo grande e troppo ramificato, i soliti schemi potrebbero essere infranti, dato che le conseguenze potrebbero non essere note. Si decise di optare per la prima soluzione, forse più per motivi personali che altro.
Inevitabile fu il tracollo. E in quel momento, in quel lunedì di metà settembre, il mondo finanziario si risvegliò senza più certezze. «Se perfino una delle banche più grandi del mondo può fallire, cosa ne sarà di noi?», si chiese Ross Westgate, storico anchorman della CNBC. Aveva ragione. In un attimo, gli sguardi dei trader nelle sale operative di Wall Street, Londra, Francoforte, Tokyo e Shanghai si tramutarono in maschere di paura. «Di fronte al fallimento, tutti hanno timore», disse a Bloomberg Jim Rogers, decano delle commodity. In quel giorno, il mondo è cambiato. Come dopo l’attacco alle Torri Gemelle, gli Stati Uniti hanno mostrato tutta la loro vulnerabilità. A distanza di quattro anni, lo sono ancora.
L’Europa soffre, gli Stati Uniti cercano un equilibrio e l’Asia non è riuscita a prendere la leadership, complice la riluttanza dell’Occidente a lasciar spazio alle economie emergenti. Forse, come ha spiegato Jim O’Neill, numero uno di Goldman Sachs Asset Management e padre del termine Brics, è per colpa della poca maturità che le stesse economie emergenti hanno. Il risultato è che, come ha scritto Ian Bremmer, il mondo non ha più una guida. «Siamo nel pieno sviluppo del G-Zero World», scrive il presidente dell’Eurasia Group. Dal G-20, al G-0. E ha ragione. Il mondo è nel mezzo di «una guerra commerciale e finanziaria tra vecchi e nuovi poveri». Di fronte all’impoverimento della classe media, non c’è una nuova classe che prendendo il potere. Il rinnovamento non esiste e si avanza a piccoli passi, prendendo tempo su tempo. Lo sta facendo l’Europa, che di fronte alla sua più grande crisi continua a cercare un equilibrio capace di proiettare nel futuro un’eurozona con squilibri tanto grandi quanto profondi fra il Nord e il Sud dell’area. Ma lo stanno facendo anche gli Stati Uniti. Dopo aver creduto alle parole di Barack Obama, fra pochi mesi dovrà fare i conti con una disoccupazione in aumento, un nuovo round di stimoli da parte della Fed e un Fiscal cliff ancora da decifrare. Senza tagli alla spesa, infatti, si rischia molto, forse più che con Lehman Brothers.
Nemmeno gli Stati Uniti sono più gli stessi di quattro anni fa. Hanno perso il massimo rating possibile, la tripla A, per mano di Standard & Poor’s e proprio per via del Fiscal cliff potrebbero subire lo stesso destino da Moody’s e Fitch, le altre sorelle del rating. Hanno subito il peso degli scandali bancari, come quello di J.P. Morgan, che ha mostrato come non sia possibile avere la presunzione di controllare il mondo se non si controllano nemmeno i propri dipendenti. Hanno ricevuto gli attacchi da parte dell’Europa, che li colpevolizza di aver scatenato il terremoto finanziario globale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Washington non è mai stata così debole. Eppure, ha provato a fare ciò che poteva, con quello che aveva.
Dal salvataggio di AIG, il più grande assicuratore mondiale crollato nei giorni neri di Lehman Brothers, il Tesoro americano è riuscito anche a guadagnarci. Pochi giorni fa, l’ultimo deal. Ma restano casi isolati. Wall Street rimane il centro finanziario del mondo, nonostante la politica cerchi di imbrigliarla secondo i suoi schemi bizantini. Ogni tanto, tuttavia, ci si ricorda che dietro a quel grande macchinario che è la finanza, ci sono uomini. Ognuno di essi con le proprie virtù e i propri vizi. Friedrich Nietzsche, nel suo “Al di là del bene e del male” ha descritto ciò che ha provato il Gotha della finanza prima, durante e dopo il fallimento di Lehman Brothers: “Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. Tutti noi siamo ancora lì a guardare dentro un’abisso che non conosce profondità.