C’è almeno un senso in cui non possiamo non dirci “montiani”, per parafrasare il celebre saggio di Benedetto Croce sul Cristianesimo. Questo senso sta, a mio parere, nella discontinuità stilistica che il governo Monti ha introdotto rispetto a tutti i governi della seconda Repubblica. Abituati a governi pieni di persone incompetenti, litigiose, spesso volgari, talora persino sospettate di gravi reati, non ci par vero di essere in mano a gente normale, istruita, educata, che forse parla un po’ troppo in pubblico, ma in compenso non ci fa mai vergognare di quel che dice e di come lo dice. Gente di cui all’estero si fidano, gente rispettata su entrambe le sponde dell’Atlantico, gente che magari non riesce a onorare tutti gli impegni (ad esempio quello sui tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione), ma non trova né normale né fisiologico promettere e poi non mantenere.
Paradossalmente, però, questa discontinuità che avvertiamo in molti (almeno la metà degli italiani, a giudicare dai sondaggi), anziché semplificare il giudizio politico, lo complica enormemente. Perché molti di noi sono montiani per ragioni estetiche, non per ragioni politiche. Inorridiamo all’idea di un ritorno al potere di quella corte dei miracoli che ci ha governato nel secondo inglorioso “ventennio” della nostra storia, quello che inizia con Berlusconi e con Berlusconi finisce. E proprio per questo, già solo per questo, siamo istintivamente “montiani”. Ci piacerebbe essere sempre governati da un ceto politico accettabile, che ha il senso delle istituzioni, e non vedere mai più il film che abbiamo visto e rivisto infinite volte in questi anni. Ma…
Ma il problema è che Monti ha anche una politica, oltre che un aplomb. E quando si parla di quel che il suo governo fa, non si può confondere l’una con l’altro. Si può apprezzare il format Monti, senza apprezzare i contenuti che ci mette dentro. Quel che a me pare sbagliato è il cortocircuito fra i due piani: dato che ci piace lo stile di Monti, ci piace anche la sua agenda. Certo, si può avere la fortuna di apprezzare entrambi, stile e agenda (questo pare essere il caso di Pier Ferdinando Casini), ma non c’è un nesso necessario fra le due cose. Lo stile va benissimo, dell’agenda invece si deve discutere, senza assumere che chi gradisce lo stile debba sottoscrivere l’agenda.
Dunque parliamo dell’agenda. Che cos’è che non va nell’agenda Monti? A mio parere fondamentalmente una cosa: la politica del suo governo si basa su una teoria discutibile, molto merkeliana. La teoria poggia su due pilastri:
(I) il malato Italia, prima di guarire e per guarire, può sopportare dosi massicce di tasse senza soccombere;
(II) i mercati apprezzano le tasse, perché sono lo strumento per contenere il deficit pubblico.
Ora, entrambi questi pilastri sono meno solidi di quel che possono apparire. L’idea che, in un Paese come l’Italia, si possa ancora aumentare la pressione fiscale pare ignorare il fatto che l’imposizione sul profitto commerciale – pari al 68.6% – non ha eguali in nessuno dei 34 Paesi appartenenti all’Ocse, il club delle economie “avanzate”. E il carburante ideologico di questa visio e delle cose – la lotta all’evasione – è a sua volta impigliato in un equivoco: che i soldi sottratti agli evasori siano di natura diversa rispetto a quelli sottratti ai contribuenti onesti. Mentre la realtà è che la domanda per consumi e investimenti, di cui quotidianamente e keynesianamente si sente lamentare l’insufficienza, si contrae sia se lo Stato tartassa chi già paga le tasse, sia se lo Stato va a scovare chi non le paga.
Ma anche l’idea che i mercati finanziari apprezzino le tasse (come garanzia di riduzione del deficit) ha un fondamento debole. I mercati sono assai poco sensibili all’entità del deficit pubblico, mentre sono iperattenti alle prospettive di crescita. Un Paese che ha un basso deficit pubblico, ma nessuna prospettiva di crescita, fa più paura di un paese che ha un alto deficit ma ragionevoli prospettive di tornare a crescere. E un aumento delle tasse in un paese con 2000 miliardi di debito pubblico e una pressione fiscale da capogiro non viene solo apprezzato in quanto riduce il deficit, ma anche temuto in quanto provoca una recessione, che a sua volta vanifica lo sforzo di raccogliere maggiori entrate.
Insomma il problema è che il governo Monti ci ha salvati dal baratro in cui stavamo precipitando nel novembre dell’anno scorso, ma lo ha fatto a un costo troppo alto. Una manovra fatta di poche riduzioni di spesa e di grandi inasprimenti fiscali non si limita a ridurre la domanda aggregata – un inconveniente che sarebbe stato provocato anche dai tagli di spesa invocati dagli economisti liberali – ma ha due effetti collaterali importantissimi: distrugge occupazione, perché rende ancora meno conveniente fare impresa, e aumenta lo spread, perché i mercati sono sensibilissimi al deterioramento delle previsioni di crescita. La differenza fra una politica di tagli di spesa e una di inasprimenti fiscali è che la prima libera risorse, che possono essere investite per aumentare la torta del reddito nazionale, mentre la seconda soffoca ulteriormente un sistema già paralizzato dalla burocrazia e dalle tasse.
Ecco, quando si parla di “Agenda Monti”, a mio parere è di queste cose, gravide di conseguenze sulla nostra vita di tutti i giorni, che dovremmo discutere. Specie se lo stile Monti ci piace, la domanda che dobbiamo farci subito dopo è: possiamo andare avanti così? La mia impressione è che la risposta sia no. Per non toccare la spesa pubblica, abbiamo pagato un costo molto salato, troppo salato, in termini di maggiore spread e di minore occupazione. Quindi il problema diventa: perché non tenerci il format e cambiare l’agenda?