Ma cos’è la legge anti-corruzione che il Pdl non vuole?

Ma cos’è la legge anti-corruzione che il Pdl non vuole?

Mario Monti l’ha detto chiaramente: «sulle misure contro la corruzione l’inerzia di alcune parti politiche è comprensibile ma non scusabile». La parte politica in questione è il Pdl, che ormai da giugno ostacola, in modo più o meno esplicito, il ddl anticorruzione. Questo provvedimento era nato nel 2010 con Alfano ministro della Giustizia. Ma, caduto il governo Berlusconi e subentrata la Severino, il ddl è stato profondamente cambiato. Sotto la pressione dell’Europa e dell’opinione pubblica, esasperata dalla sequenza – in costante aggiornamento – di casi di malaffare, il governo ha inasprito la parte di diritto penale. Ad un aumento generale (ma contenuto) delle pene si sono aggiunte, tra le altre cose, l’introduzione del reato di corruzione tra privati e di traffico di influenze illecite.

La corruzione, fino ad ora, si configurava solo se uno dei soggetti era un pubblico ufficiale. Con la nuova disciplina sono puniti con la reclusione da uno a tre anni “gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori” che in cambio di denaro “compiono o omettono atti in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio e degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alle società”. È punito con la reclusione da uno a tre anni anche il traffico di influenze illecite, cioè la condotta di chi “sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di pubblico servizio”, si fa pagare per la propria mediazione illecita. I magistrati che hanno indagato su “i grandi appalti” e la cosiddetta “p3” avrebbero potuto lavorare meglio, se questi strumenti fossero già stati attivati.

Oltre a queste norme il ddl prevede anche l’incandidabilità di chi viene condannato in giudicato (ma su questo tema non si sono registrate gravi spaccature) e lo spacchettamento del reato di concussione. Si distingue il caso in cui il pubblico ufficiale “induca” qualcuno a corromperlo da quello in cui lo “costringa”. Nel secondo caso, rimane praticamente immutata la disciplina attuale. Nel primo, le pene vengono diminuite (3-8 anni di reclusione invece che 4-12), ma viene punito anche il soggetto “indotto” a corrompere.

Queste novità sono state sufficienti perché il disegno di legge divenisse indigesto per il partito di Berlusconi. Secondo alcuni suoi esponenti, l’aumento delle pene avrebbe violato il principio costituzionale di proporzionalità tra reato e sanzione. Ritirate le obiezioni più macroscopiche, la posizione del Pdl si è cristallizzata nella richiesta di uno scambio: le misure contro la corruzione possono passare, ma solo se si parla di intercettazioni e responsabilità dei magistrati. Il Partito democratico non sembra disposto a trattare su questi punti ma, sempre oggi, il premier Monti ha detto che si farà un «pacchetto equilibrato sulla giustizia», aprendo uno spiraglio alle richieste del centrodestra.

Il punto, già sottolineato in passato da Linkiesta, è che le norme contenute nel ddl rappresentano un progresso e vanno incontro alle sollecitazioni che arrivano dall’esterno (ancora oggi l’Ocse ha ribadito la necessità di intervenire), ma non sono certo rivoluzionarie. Anche se entrassero in vigore il problema della corruzione in Italia rimarrebbe, perché il regime della prescrizione è tale da impedire un’efficace repressione giudiziaria. Basti pensare che un reato scoperto oggi, se è stato commesso prima del 2010, con ogni probabilità andrà prescritto. Lo scontro in Parlamento è quindi dovuto più a questioni simboliche e politiche, che non reali.

Il Pdl porta avanti una posizione sedicente “garantista”, e vede come fumo negli occhi qualsiasi tentativo di aumentare l’arsenale di strumenti giudiziari a disposizione di procuratori e magistrati. Inoltre, durante questa stessa legislatura, la precedente maggioranza Pdl-Lega stava per votare due provvedimenti che testimoniano quali siano le priorità del centrodestra in tema di giustizia: la “prescrizione breve” e il “processo lungo”.

Nate dal malcelato tentativo di proteggere Silvio Berlusconi da quattro processi in corso a Milano (Mediaset, Mediatrade, Mills e Ruby), le due norme miravano da un lato a modificare il regime di prescrizione, abbreviandone i termini e rendendo ancor più grave la situazione già patologica dell’Italia, dall’altro a impedire al giudice di rifiutare di ammettere i testimoni citati dalla difesa. In questo modo i tempi dei processi si sarebbero sicuramente allungati, aumentando le possibilità della prescrizione. Le simulazioni delle conseguenze sul funzionamento della giustizia davano risultati catastrofici. Secondo il Csm la “prescrizione breve” – introducendo una serie di termini “tagliola” in ogni fase del procedimento – avrebbe estinto il 10% dei processi, e il “processo lungo” avrebbe portato ad una «paralisi» di quelli in corso. Le tattiche dilatorie degli avvocati, incentivate dal fatto che in Italia (caso unico nell’Europa occidentale) il processo non interrompe la prescrizione, avrebbero avuto ancora maggiori possibilità di successo.

Il governo Monti si trova nella situazione di dover far passare dei provvedimenti che renderebbero più efficace il lavoro dei giudici, ad un parlamento che fino a un anno fa era pronto a votare leggi di segno diametralmente opposto. L’intervento di oggi del premier rimette il tema al centro dell’attenzione. Una mediazione sarà necessaria. Se qualcuno volesse far notare al partito “anti-tasse” per eccellenza, che quella “occulta” rappresentata dalla corruzione ci costa tre volte l’Imu (60 miliardi l’anno, secondo la Corte dei Conti), questo è il momento giusto.
 

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