’Ndrangheta, c’è una Chiesa che si volta dall’altra parte

’Ndrangheta, c'è una Chiesa che si volta dall'altra parte

REGGIO CALABRIA – È incassato sul fondo di una valle che l’Aspromonte chiude da ogni lato. Ma non sono la posizione suggestiva, o pregi architettonici e artistici, a trascinare, la prima domenica di settembre, migliaia di persone. Il santuario di Polsi è una questione più seria e complessa di identità e devozione. «Si vedono tutte le facce della Calabria», riassumeva nel 1931 Corrado Alvaro, impressionato dalla fiumana di pellegrini riversata nel vallone, e dai «due occhi bianchi e neri, fissi, che guardano da tutte le parti» della statua della Madonna della Montagna, custodita in una nicchia sopra l’altare. Tutte le facce della Calabria. Comprese quelle che non ci dovrebbero stare, che per decenni si è negato ci fossero e che nel settembre 2009, nell’ambito dell’inchiesta “Crimine”, furono filmate, guardinghe e rugose, in cerchio sotto il simulacro esterno della Madonna, a ratificare cariche e accordi. A Polsi, insomma, ci sta pure la ’ndrangheta, “devota” nel suo modo distorto, avendo eletto il santuario, racchiuso nel territorio comunale di San Luca, simbolo e fonte di legittimazione e consenso.

Una presenza datata e puntuale, la sua. La documentano, a partire dagli anni Quaranta, fonti giudiziarie e letterarie, con la descrizione dettagliata dell’“assemblea” delle cosche durante la festa di settembre. E la denunciano inquietanti fatti di cronaca come l’omicidio dell’economo di Polsi, don Giuseppe Giovinazzo, ammazzato a colpi di fucile e pistola il 1 giugno 1989 mentre faceva rientro a Locri. Ma della ’ndrangheta nel santuario la Chiesa locale non si è data, ufficialmente, eccessiva preoccupazione, bollando le riunioni dei boss come vecchie tradizioni folkloristiche o frutto di sensazionalismo mediatico. Fino alla brutale verità del filmato del 2009. «Cari fratelli, se anche oggi ci saranno incontri e patti illegali, del tipo di quelli che hanno intercettato l’anno scorso le Forze dell’ordine, a noi poco importa. Sono cose che non ci riguardano. A noi interessa contemplare il volto materno di Maria», scandì l’anno successivo, dal santuario, il vescovo della diocesi di Locri-Gerace, Giuseppe Fiorini Morosini.

In sintesi, la ’ndrangheta con Polsi con c’entra (e in un’accorata lettera aperta, scritta dopo la divulgazione del video, il presule pregò gli ’ndranghetisti di non umiliare, con la loro presenza, il santuario). Ma se vorrà continuare a sbagliare, non è circostanza che debba interessare o condizionare i veri devoti. Separati in casa, insomma. Solo che la casa “comune” è Polsi, un pezzo pregiato dell’identità calabrese, e l’inquilino da ignorare è la faccia peggiore di questa terra. 

La prossimità di sacro e ’ndrine non è un’esclusiva del santuario aspromontano. La ’ndrangheta è spesso davanti all’altare: a trafugare simboli, riti e figure da imbrattare nelle sue cerimonie di affiliazione, a mescolarsi nelle processioni, mettendosi in spalla Santi e Madonne, a organizzare feste patronali. Questione di consenso. In Calabria, però, la ’ndrangheta dall’altare è stata anche cacciata in malo modo e con parole definitive. «I mafiosi si ritengono uomini e, addirittura, “uomini d’onore”: se c’è qualcuno che invece non è uomo è il mafioso, e se c’è qualcuno che non ha onore è il mafioso, i mafiosi non sono uomini e i mafiosi non hanno onore; questo dobbiamo dirlo tranquillamente con tutta la comprensione e la pietà». Don Italo Calabrò il pomeriggio del 2 agosto 1984, a Lazzaro, un piccolo centro a pochi chilometri a sud di Reggio, detta una linea durissima.

Gli “uomini d’onore” hanno sequestrato un bambino – l’undicenne Vincenzo Diano – e il vicario della diocesi di Reggio, dal palco allestito in piazza per una celebrazione eucaristica di solidarietà con la famiglia, bandisce prudenza e mezze misure. Nella sua parrocchia di San Giovanni di Sambatello, regno del boss Domenico Tripodo, ha imparato giorno per giorno cos’è la ’ndrangheta e che la cristiana pietà per i peccatori non deve generare silenzio. «Nel coraggio del suo pastore la gente ritrova il suo coraggio», ama ripetere. E allora don Italo parla chiaro. Ai mafiosi ammazzati celebra i funerali, ma trasformando ogni omelia in un pesantissimo atto d’accusa. Qualche volta se la vedrà brutta. Nel rispetto dell’esempio che ha lasciato, non sarà il solo, in Calabria. A don Giacomo Panizza, che a Lamezia Terme ha riempito la casa confiscata alla cosca Torcasio di disabili ed emarginati, gliel’hanno promessa da un po’. E con regolarità glielo ricordano con incendi, bombe, o danneggiamenti. Quello che aveva il compito di ammazzarlo fu ammazzato prima di eseguirlo.

Don Giacomo vive sotto scorta. Fiamme dolose, minacce e intimidazioni anche per la cooperativa “Valle del Marro”, fondata da don Pino Demasi per gestire i terreni confiscati alle cosche nella Piana di Gioia Tauro. Mentre a don Ennio Stamile, che a Cetraro durante la messa si era scagliato contro i responsabili di una lunga serie di atti delinquenziali, hanno recapitato una testa di maiale con un pezzo di stoffa in bocca, a mo’ di bavaglio. Esempi, tra i molti possibili, di una Chiesa calabrese che respinge l’abbraccio mortale con cui la ’ndrangheta vorrebbe infangarla.

Qualche volta, però, dall’altare risuonano anche parole che confondono. «Francesco Pesce è un mio amico, Domenico Varrà è un gran gentiluomo e Franco Rao è una brava persona». A garantirlo, nel luglio scorso, è stato l’anziano sacerdote di Rosarno, don Memè Ascone, deponendo al processo “All Inside”, in corso a Palmi contro la cosca Pesce. I suoi amici devono tutti rispondere di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma don Memè non ha dubbi: «In questo processo ci sono persone detenute ingiustamente». Il pm, durante la sua deposizione, ha abbandonato l’aula. In tribunale ci entrerà da imputato, invece, don Nuccio Cannizzaro – parroco di Condera e cerimoniere del vescovo di Reggio, Vittorio Modello – , rinviato a giudizio nel marzo 2012 per falsa testimonianza aggravata dall’aver favorito la ’ndrangheta. Nello specifico, il boss di Croce Valanidi, Santo Crucitti. Tante facce e diverse, insomma, come quelle che sfilano a Polsi.

Con l’avvicinarsi delle celebrazioni (si sono tenute il 2 settembre), il vescovo Morosini è ritornato nei giorni scorsi sull’argomento, deplorando la cattiva reputazione del santuario. «Questa ricorrenza è preparata sempre con i soliti ricordi: ’ndrangheta, il santuario della mafia, i raduni. Come se Polsi, e il santuario, fosse solo trattabile in termini di mafia “sì”, mafia “no”. Si viene presi dal pensiero che lì ci sia un covo, sede della regia della ndrangheta o della mafia. Addirittura alcuni pellegrini mi chiedevano quale fosse il locale all’interno del santuario dove la mafia facesse le proprie riunioni: il santuario sicuramente non è il luogo dove avvengono queste riunioni». E per provarlo, in ideale risposta al video del summit, la diocesi ha deciso di garantire quest’anno la trasmissione in diretta web streaming della processione. Un tentativo di rifare l’immagine a Polsi. Anche se in molti avrebbero preferito una chiara dichiarazione di sfratto per chi la insozza.
 

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