La giornata di una ragazza e di un ragazzo, costretti a stare insieme dalla mattina alla sera, lei imprigionata da un sistema che sceglie lui come custode e guardiano, estranei all’inizio e legati alla fine: praticamente identica trama per due film italiani, “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo e “Un giorno speciale” di Francesca Comencini. Ma risultati assai diversi: tanto il primo restituisce in forma quasi metafisica il disagio della gioventù imprigionata da un Paese aguzzino (nello specifico, lo scenario è quello camorristico napoletano), quanto il secondo finisce per impantanarsi nella Roma di maniera (per quanto tecnicamente ben fotografata) dei palazzi del potere. La ragazza sogna di fare l’attrice, ma vive un presente da sfogo sessuale serale per l’onorevole di turno. Film manifesto perfetto per il movimento “Se non ora quando”, ma poco di più. Il personaggio femminile di Gina (Giulia Valentini) è ricalcato sulle veline tv sparse a reti unificate; il ragazzo, Marco, sembra invece il fratello minore e meno tragico, ma ugualmente autista dei potenti, del Valerio Mastandrea di “Il giorno perfetto” (titolo praticamente gemello) di Ozpetek: peraltro come Mastandrea, anche Filippo Scicchitano pare nato per personaggi alla Giggi er Bullo. Romani, molto romani.
Peccato perché l’inizio sospeso, il gregge al pascolo sull’asfalto del Villaggio Prenestino, alcuni squarci di fenomenologia burina (“e che te voi tatua’, na pecora?”) e certe immagini di neoborgata sono intuizioni davvero azzeccate, ma tutto affonda con la comparsa cartolinesca di Piazza di Spagna e delle vetrine vip del Corso (e come sono involontariamente tragiche tutte quelle persone non spesate dalla produzione che guardano drammaticamente in camera mentre passano i due attori, come fossimo su un set Rai della “Vita in diretta”).
Anche per non dare l’impressione che la Mostra abbia per forza bisogno di un film firmato Comencini (Francesca o Cristina), sarebbe stato molto meglio (e più coraggioso) portare in concorso “L’intervallo”, davvero un mezzo capolavoro, affondato invece nella sezione Orizzonti, nella quale meglio figura il molto più modesto film di Salvatore Mereu “Bellas Mariposas”, una sorta di “sardi, sporchi e cattivi” ambientato almodovariamente nel sottoproletariato cagliaritano.
Se il film della Comencini è sostanzialmente inutile, quello di Brian De Palma “Passion” è addirittura controproducente: per lo stesso maestro americano, intendiamo. Che bisogno c’era di tornare su un set per una incommestibile marmellata hitchcockiana, patinata e lesbo-chic, meno erotica di un divano Ikea, con colpi di scena a singhiozzo? Veramente incomprensibile, per il genio di “Omicidio a luci rosse” o “Carrie – Lo sguardo di Satana”. Se così deve’essere, invochiamo la pensione.
Per fortuna, la giornata ha offerto un po’ di aria con “The Weight”. Che dimostra inoppugnabilmente una verità: in Sud Corea non fanno solo i Samsung, ma anche bei film. Questa pellicola è firmata da Jeon Kyu-hwan, accompagnato in Sala Darsena dal suo connazionale Kim Ki-duk, aspirante con molte chance al Leone d’Oro con “Pietà”. A leggere la trama, si penserebbe a un trash pieno di freak e splatter: il protagonista è un gobbo che pulisce all’obitorio i cadaveri di persone uccise; dietro ricompensa concede il corpo di una bellissima deceduta a un reietto rifiutato dalle prostitute; realizza il sogno di un trans (che è poi suo fratello) di diventare donna tagliandogli il pene dopo morto, e così via. Non oseremmo pensare come racconterebbe questa umanità un regista dall’animo netturbino come Harmony Corine, che con “Spring Breakers” ha raccolto tutta l’immondizia dell’immaginario yankee per consegnarci una sopravvalutatissima cine-discarica. In “The Weight” tutto è raggelato, ogni elemento possiede una dignità e una necessità di racconto, grazie a un copione piuttosto sofisticato (peccato solo per qualche banalissimo simbolismo di troppo nel finale). Rigore, rigore, rigore: senza schiamazzi estetici, scandalismi straccioni, astruserie sociologiche. Sud Corea forever.