Confesserò subito due o tre modesti tradimenti professionali alle consuetudini di una vita: non parlare di colleghi, non parlare di amici-colleghi, non parlare espressamente di altri giornali (ormai quest’ultimo precetto di più difficile osservanza). Questa intervista ad Antonio Padellaro, direttore del «Fatto Quotidiano», li comprende tutti e dunque si affida alla vostra benevolenza. Ma pensavo, e penso, che Padellaro sia a capo di un’impresa editoriale unica nel suo genere e dunque meritevole d’essere raccontata pur con le precauzioni di cui sopra.
In tutta la lunga conversazione ho cercato inutilmente di fargli dire che «giustizialismo» è ancora un concetto negativo, almeno per l’accezione che gli abbiamo dato negli anni contrapposto all’abusato concetto di «garantismo». Alla fine della lunga conversazione – sarà perché conosco l’uomo e la sua inclinazione a vivere in pace e in buona armonia con gli altri umani di questa terra – debbo ulteriormente confessarvi che il giustizialismo di Antonio Padellaro non mi sconvolge e semmai, in alcuni tratti distintivi, mi piace pure. Con questo, condividendo non moltissimo dell’inclinazione culturale che «Il Fatto Quotidiano» porta con sé.
Il direttore si è lasciato piacevolmente andare e forse lo potrete apprezzare nel corso delle sue risposte. Per esempio quando gli ho contestato la patente (non sua, del giornale) di complottardi ai danni delle istituzioni, per la vicenda Napolitano: «Ma non hanno qualche cazzata più divertente per attaccarci?» – se n’è uscito con una risata liberatoria. O come quando gli ho riproposto il teorema di Ezio Mauro, che ha scaraventato giornalisti e lettori del Fatto nello stagno maleodorante della destra che si rifà al Borghese, una destraccia, insomma. «Posso dirti – mi ha risposto – che non conosco un solo lettore del nostro giornale che è di destra? Ma quelli si comprano giustamente Libero o gli altri giornali che li rappresentano meglio».
Direttore Padellaro, comincerò subito dalle bibite gassate che il governo voleva tassare. Si è parlato di Stato etico. Più o meno come voi del Fatto, un giornale che vuole imporre l’etica, fare la morale agli altri.
«Mi viene proprio da sorridere, l’ho sentita questa teoria messa in giro da certi “corazzieri” dell’informazione. Invito tutti a venire qui in redazione da noi, si renderanno conto della caratteristica principale di questo giornale, che è il tratto umano. Qui c’è gente allegra, vivace, che lavora seriamente ma in serenità e, udite udite, anche con autoironia. Ho sempre diffidato dei giornalisti tristi, di quel clima plumbeo di certe redazioni, quelle routine da mezzemaniche…»
Allora mettiamola così. E’ come quella storia antica dell’inflazione reale e l’inflazione percepita. Voi sarete anche degli allegroni, ma da fuori invece il clima sembra molto meno disteso…
«Siamo un vascello un po’ ribaldo che va per mare e quando il vascello mette la freccia e dà fastidio alle corazzate, allora vengono fuori queste cose. Guarda, l’altro giorno un quotidiano non propriamente vicino a noi, Il Foglio, ci ha raccontato in maniera esemplare. Rizzini, la giornalista che ha fatto il pezzo, è stata bravissima nel cogliere lo spirito corsaro di questa nostra impresa…»
Ecco, a proposito dell’impresa. Quanto vende il Fatto?
«Nel mese di agosto ha venduto 56mila copie in edicola più i 18mila abbonamenti che dobbiamo mettere nel computo finale. Rispetto all’anno scorso perdiamo un dieci. Ma in tutta onestà, rispetto all’anno scorso la tensione è calata parecchio. Diciamo che ci è venuto a mancare il nostro motore di ricerca più autorevole…(qui Padellaro ride), insomma Berlusconi si è ritirato e ne siamo orfani. Ma siamo ancora a ottimi livelli e chiuderemo per il terzo anno consecutivo in utile. In giro ne senti molti di giornali così?»
A proposito di utile. Ha fatto impressione che i soci si siano pappati le stock option e non le abbiano reinvestite nel giornale.
«In questo caso bisogna inchinarsi di fronte al codice civile. La nostra è una società per azioni il cui statuto recita che la parte giornalistica è separata dalla parte dell’impresa. Quando tutti i soci votano sui dividendi, vince la maggioranza e la maggioranza dei soci del Fatto ha votato per incassarli subito. Io, Travaglio, Gomez e Lillo invece eravamo per tenerli qui, dentro il Fatto. Visioni diverse, da cui però non si può concludere che non investiamo sulla creatura. Abbiamo già investito molto e continueremo a farlo, su internet, sulla web tv e su altre forme sociali. Il sito ha 600mila contatto, su Facebook 900mila, sono numeri importanti. O no?»
Fuori il rospaccio direttore Padellaro: siete dei giustizialisti.
«Ti voglio ricordare come nascemmo tre anni fa e quale linea politica indicammo: la Costituzione. Tutti hanno riso, lo ricordo bene. Ma che linea politica è, si disse? Bene, ma sapete che tutta la nostra Carta è giustizialista, il suo impianto, i suoi articoli, a partire da quello – fondamentale e rivoluzionario – secondo cui tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge?»
Ok, la Costituzione va bene. Ma te lo prendi in carico il concetto deteriore di giustizialismo?
«Ma cosa vuol dire, dai, è una buffonata, un dibattito senza senso. Intanto è già l’origine della parola che è sbagliata, almeno nell’accezione che diamo qui da noi. Nacque come fenomeno politico in Argentina, nell’Argentina di Peròn, ed era un movimento che non si poneva certo il problema dei magistrati, ma di una giustizia sociale. Ma qui al Fatto nessuno si sente sacerdote di alcunché, noi cerchiamo solo le notizie, le verifichiamo e poi le pubblichiamo, senza farci carico, come qualcuno ci accusa, del destino delle istituzioni. Vuoi sapere qual è da sempre il nostro giustizialismo?».
Sì, sono curioso…
«Portare in prima pagina ciò che altri giornali o nascondono o non pubblicano. Ecco il nostro giustizialismo!»
Tutto chiaro (o quasi), caro Antonio. Ma per come ti ho conosciuto negli anni, per la carriera che hai fatto, questa inclinazione forcaiola non l’ho mai notata. Come ti sei potuto trasformare?
«Hai ragione, sono sempre stato più politico nella mia vita professionale ma, vedi, dopo l’esperienza del Corriere, andai come vicedirettore all’Espresso di Claudio Rinaldi, il quale fu il primo a intercettare nel ’93 il fenomeno Berlusconi e a lanciare un allarme: guardate che questo signore è pericoloso, ne sentiremo ancora parlare. E’ durata quasi vent’anni, e in questo lungo periodo Berlusconi ha cambiato tutto, c’è stato il degrado della morale, che è andato di pari passo al tracollo delle casse dello stato. In quegli anni Mani Pulite nasce per questo motivo, non certo per una visione etica dei giudici, e lo stesso la nascita della Lega contro Roma ladrona. Le cricche, i partiti, gli affaristi si erano inghiottiti lo stato e questo non poteva lasciare indifferenti, ha acuito la mia sensibilità. Pensa che l’Espresso fu il primo a raccontare di questo Previti di cui si sapeva nulla all’epoca. E quando parliamo dell’avvento di Berlusconi, dobbiamo tragicamente mettere nel conto l’atteggiamento del centro sinistra, che praticamente gli ha consegnato tutto».
Qundi, quando arrivi al Fatto nel 2009, la traduzione più semplice e automatica è assecondare il giustizialismo?
«Ma come si faceva a fare giornalismo non giustizialista con un Paese così altamente corrotto? Spiegamelo, se ti riesce? Siamo un unicum nel mondo! Ma ci si può fumare la pipa con queste menate della legge elettorale, con Renzi sì Renzi no, quando si stanno divorando questo Paese, quando i giovani non hanno uno straccio di speranza, ma chi li ha ridotti in questo stato? Ma a leggere Ilvo Diamanti qualcosa si capisce: il gradimento per i partiti è arrivato al 5%».
Per capirci, direttore: ma voi de Il Fatto siete di destra o di sinistra?
«Non riesco proprio a capire cos’è destra e cos’è sinistra secondo certe logiche che vanno di moda oggi, sono solo rendite di posizione. Noi del Fatto non rispondiamo a questa logica, in riunione non ci poniamo il problemino di destra e sinistra ma solo se la notizia c’è o non c’è. E tieni conto che questo atteggiamento lo abbiamo pagato anche in termini di amicizie».
Però, nella guerra su Napolitano, Ezio Mauro vi ha buttati nello stagno maleodorante della destra, la destra del vecchio Borghese.
«Un discorso da Terza Internazionale. Ho grande rispetto per i lettori di Repubblica e soprattutto per Eugenio Scalfari che considero un maestro di giornalismo, ma ci sono rimasto veramente male. Siamo stati ingiuriati sia da Mauro che da Scalfari. Qual è la cattedra che divide il Bene dal Male? Non credo sia Repubblica. Noi non siamo ex frequentatori del Fuan! Abbiamo intervistato molte delle loro firme, Zagrebelsky, la Spinelli, Cordero, abbiamo firme che loro si sognano, come Politi e Gramaglia, che tutto sono meno che giustizialisti. Ho dovuto rispondere a quelle ingiurie, per il giornale, per la gente che ci lavora, per i lettori!»
Direttore, ci siamo, sto per chiederti di Travaglio. Se ne ne dicono mille sul tuo rapporto con lui, ma eviterò ogni malizia. Dimmi tu.
«Stiamo parlando di un talento assoluto. Marco è un talento assoluto. Lo so che dà fastidio sentirlo dire, ma è così. Tipo quei pianisti fenomenali che non hanno mai studiato musica (ma lui invece ha studiato). Ha quattro cose che insieme nessuno ha: memoria, scrittura, vis polemica e quella proprietà unica di mettere un nesso tra causa ed effetto. Marco è così: prendere o lasciare, in tutte le sue caratteristiche. E’ la più schiva rockstar che abbia mai conosciuto: un milione di fan sulla sua pagina facebook!»
Va bene Antonio, ma se mi dici anche un difetto…
«Siamo diversi io e lui? Sì, siamo diversi. Su certe cose la pensiamo diversamente? Sì, la pensiamo diversamente. E allora? E’ il centravanti di sfondamento che tutte le squadre vorrebbero avere. Me lo segnalo proprio Rinaldi, lui lavorava a Repubblica, pensa cosa si sono persi. Mi disse, io ero direttore dell’Unità: c’è questo ragazzo, molto sveglio e di buona scrittura. Ci parlai un minuto, nacque Bananas, una delle rubriche più fortunate della storia. Si lamentavano soprattutto quelli del Pd e io rispondevo sempre: è facile cacciare Travaglio, voi licenziate prima me e poi lui. Sono dieci anni che siamo insieme, è una storia forte ormai, la nostra».
E allora, conoscendolo così bene, dovrai ammettere che quella intervista a Grillo era seduta, troppo seduta per il suo standard…
«Su questa storia ti rivelerò un particolare che non è conosciuto e che mi riguarda. Per dirti dell’uomo Travaglio. Un bel giorno Grillo mi attaccò sul suo sito, non ricordo neppure perché. Marco, che aveva una sua rubrica filmata proprio all’interno del blog di Grillo, dopo un minuto se ne andò, chiuse la sua collaborazione con Grillo. Questo è Marco Travaglio. E quella non era un’intervista, ma una conversazione fatta a pranzo, proprio da Grillo che forse serviva tra loro come momento di pace da quel giorno. C’erano un sacco di notizie e gli fece le domande del caso. Ma poi scusa, parlano i nostri colleghi giornalisti di come si fanno le interviste? Ma per favore!».
Andrai a votare la domenica che si voterà?
«Non lo so, te lo dico sinceramente. Spero di avere quel giorno una persona così seria da spingermi a farlo».
E il giornale farà endorsement per qualche candidato?
«Questo lo escludo. Non è nel dna del Fatto. Via via, però, segnaleremo persone serie che si sono distinte, ne racconteremo le storie. Ho girato tanto l’Italia e ho conosciuto tanti bravi amministratori, che naturalmente il Pd ignora».
A proposito: Renzi o Bersani alle primarie?
«Ne starò debitamente lontano. Però Renzi mi sembra il prodotto della video politica, molto costruito, sia chiaro non mi è antipatico, ma politicamente non mi sembra autentico. Mentre Bersani, che sbaglia quasi tutto, politicamente è autentico».
Ogni conferenza stampa che fate, vi portate appresso un magistrato. Poi non vi lamentate se dicono che siete pappa e ciccia.
«Siamo così pappa e ciccia che Ingroia per scrivere un editoriale sulla vicenda Napolitano ha scelto l’Unità».
Ecco, Napolitano. Ma cosa ci guadagnate a buttare a mare uno come lui, e il ruolo che rappresenta, per delle «intercettazioni non penalmente rilevanti»?
«Ma si sono avvitati con le loro stesse mani! Bastava che il povero consigliere D’Ambrosio avesse risposto a Mancino che su quelli argomenti il Quirinale non poteva dire nulla o non aveva da dire nulla. Invece ha continuato a parlare, segno che lo faceva per conto del Presidente. Questo è stato un primo, grande errore. Il secondo, quando la cosa stava scemando, è stato sollevare il conflitto di attribuzione. Così la gente ha pensato: ma cosa ci sarà sotto queste benedette telefonate?»
Direttore, ma Grillo ti sta simpatico?
«Io non ho grandi rapporti con lui, lui non ha grandi rapporti con me. E certe sue uscite, certi suoi linguaggi, non mi piacciono. Come non mi piace Bersani quando tira fuori la parola fascisti. Ma 5 Stelle è l’unico, vero, rinnovamento del Paese, che tra l’altro non ha precedenti».
Cosa non vorresti più vedere?
«Non vogliamo più certe facce che hanno occupato la politica e che non hanno mosso un dito per salvare l’Italia. Non vogliamo questi che fanno film, scrivono libri, godono di auto blu e scorta e che – ancora! – non vogliono mollare la poltrona. Via tutti. E non salvo nemmeno l’Idv, sia chiaro. Di Pietro si è portato dentro un sacco di zavorra».
Ultima cosa, Padellaro. Ma i lettori del Fatto sono veramente di destra?
«Mai conosciuto uno».