Per la terza volta Milano apre le porte alla precocità inquieta di Pablo Picasso, artista manifesto della modernità. Un’impronta che dallo scorso 20 settembre fino al 6 gennaio 2013 calcherà nuovamente le sale di Palazzo reale, dopo una prima cessione faticosa nel 1953 di Guernica (1937), oggi al Museo Reina Sofia di Madrid e inamovibile persino all’interno della stessa Spagna per il timore di rivendicazioni basche. Così, dopo la seconda retrospettiva milanese del 2001, in mezzo alle ferite dell’11 settembre, si riattraversa un percorso antologico tra oltre 250 opere scandite per cronologia e vastità di reperti provenienti dal Musée National Picasso di Parigi, attualmente in ristrutturazione.
Un beneficio di certo reciproco che nell’unica tappa europea di un tour mondiale consente di abbracciare la totalità dell’arte picassiana, di invaderne le ossessioni e la spinta creativa inesausta, con il solo ostacolo imperante della scadenza temporale, quel sipario pronto a calare quando c’è ancora parecchio da dire e da scoprire sposando e sovvertendo regole. L’insistenza sul termine capolavori non è posta a caso dagli allestitori anche per ragioni eminentemente storiche: una mostra complementare e gratuita a cura di Francesco Poli documenta, infatti, in una ricostruzione visiva per scritti e ritagli di giornale, il merito di Attilio Rossi operatore culturale, artista e amico di Pablo, nell’ottenere il prestito di Guernica. Legati da un’amicizia di istanze politiche comuni e da un sostegno condiviso agli esuli della guerra civile spagnola, la suggestione della Sala delle Cariatidi, con ancora visibili i segni dei bombardamenti del secondo conflitto, incarna per entrambi la cornice scenica ideale di un’opera che piega lo sguardo all’impegno sociale. Non una costrizione, ma un’influenza drammatica tanto quanto l’azione dell’arte deve trattenere e poi espandere per essere presente alle umanità lacerate.
Ma in questa terza ondata picassiana a Milano, Guernica resiste come semplice emulazione in una ricostruzione videografica dalle dimensioni originali che forse all’artista sarebbe risultata in fin dei conti amara. Compensano la lacuna gli avvicendamenti fotografici dell’opera per mano di Dora Maar, compagna di Picasso, e le versioni della personalità pubblica e privata di Pablo sotto firme celebri quali Robert Capa o Robert Doisneau. Sulla stessa scia, i veri capolavori – raccolti in gran numero anche grazie alla legge promulgata dal ministro Malraux nel 1968 per l’acquisizione delle opere dagli eredi mediante il pagamento delle tasse di successione – si susseguono passando per Massacro in Corea (1951), esposto in parallelo ai discorsi sulla guerra, fino a entrare nel vivo delle età di sperimentazione tecnico-stilistica del matador novecentesco.
Anne Baldassarri, presidente del Musée National, ha a proposito allestito la sequenza delle sale milanesi secondo una progressione che, da un lato, prova l’istinto di conservazione pressoché maniacale dell’artista in ogni epoca fino alla morte nel 1973, dall’altro, fa entrare il visitatore nel vivo di un’esistenza priva di pause dalla ricerca e da un autobiografismo strumento primario della moltiplicazione dei piani. Un ritorno perenne quello alla quotidianità degli oggetti e delle amanti sottomesse al padrone violento, poi tradotte sulla tela, nei disegni e nelle sculture come fisionomie sconnesse e rifugio della “volontà di provare tutto”.
Istinto e macchina cerebrale scorrono già nel primo periodo blu dal 1901 al 1906 con il ritratto La Celestina (1904), dove la pennellata di Picasso non assume i caratteri di dispersione malinconica e semplificazione fine a se stessa, ma nella scelta del blu persegue la modernità di predecessori come Manet. Il blu e il viola servono quasi da dichiarazione per un prossimo viaggio nella vita del giovane artista da Barcellona a Parigi, quando il rosa interviene a mutare l’occhio che tutto assorbe lasciandosi ispirare nell’Autoritratto (1906) dalle volumetrie primitiviste di Gaugain e dalla scomposizione geometrica di Cézanne.
La dichiarazione del genio si svela apertamente nell’istante in cui Picasso sfonda con Braque le pareti fisse dei riflessi di solidi e corpi allo specchio, divenuti percezioni e rifrazioni di prospettive. Il cubismo è al suo esordio per l’artista attorno al 1908 quando ancora si colloca come analitico, cioè si manifesta la scissione più dirompente dei piani d’osservazione (Natura morta con cinghia di rasoio, 1909), fino a un secondo approdo sintetico in Uomo con mandolino e Uomo con chitarra (1911) dove sono accolti anche oggetti e figurazioni emblematiche dell’uomo.
La tregua non è ammessa, né tantomeno concessa alla dignità delle malcapitate che si accompagnano a Pablo e tornano in ritratti di riscoperta del classico tra il 1915 e il 1924. La fisicità è dominante come slancio di donne-colossi vicine alle bagnanti di Ingres e danze campestri (si veda ad esempio Donne che corrono sulla spiaggia, 1922) in cui proprio nel peso delle carni si ritrova l’abbandono mai definitivo del cubismo.
In Ritratto di Olga (1918), danzatrice dei balletti russi di Diaghilev, risalta il bisogno di tornare al più popolare ordine pittorico pur nella griglia tormentata del surrealismo degli anni Trenta. Picasso fa di quest’era un processo quasi coreografico di disarticolazione, almeno fino al 1934-35, esplorando i margini più labili e inquietanti di femminilità afflitte dal suo dominio. Nella scultura Testa di donna (1929-30), dove il cranio è uno scolapasta, si anticipano le drammatizzazioni di dipinti poco più tardi come Ritratto di Dora Maar (1937), la donna che piange, e gli slanci epico-simbolici di Minotauromachia (1935), in cui la morte interviene a segnare un dolore fratello dei conflitti e degli orrori degli anni Quaranta.
Solo negli ultimi tempi, tra il 1946 e il 1961, come tra il 1963 e il 1973, l’uomo e l’artista sono preda di riflessioni su quanto vissuto senza sosta, sulla libertà del dipingere che finisce per inglobare ogni altra tecnica, compresi i tableaux reliefs e i papiers collés. E allora, dalla poetica dell’ordinario, con oggetti assemblati per meccaniche surrealiste, la materia pittorica, scultorea nonché grafica picassiana (si pensi all’acquatinta Ecce homo da Rembrandt, 1970) testimonia l’ennesima storia che si guarda indietro.
Per l’ultima volta, va in scena il classico di Velázquez, El Greco, Delacroix e Goya, ma anche l’intreccio erotico di Il bacio (1969), in cui Pablo stringe in contorsione a sé l’ultima compagna Jacqueline. Se davvero l’occhio fa di un dipinto “l’esito di una distruzione”, le metamorfosi di quel trompe de l’esprit tanto invocato provano l’infinito racconto di una genesi, pur tra le pareti grigio-fredde di Palazzo reale.
Picasso
Capolavori dal Museo Nazionale di Parigi
In mostra a Milano, Palazzo Reale
Dal 20 settembre 2012 al 6 gennaio 2013
Infoline e prevendita 0254911
www.mostrapicasso.it
Donne che corrono sulla spiaggia (1922)
Testa di donna (1929-30)
Ritratto di Dora Maar (1937)
Massacro di Corea (1951)