Prima la ’ndrangheta, poi le banche: storia di un’azienda in lotta

Prima la ’ndrangheta, poi le banche: storia di un’azienda in lotta

REGGIO CALABRIA – Dei capannoni più vicini, uno doveva sfornare mobili. Un giorno, però, esauriti gli incentivi della legge 488 destinati alle attività produttive nelle aree svantaggiate d’Italia, svanì pure l’industriale piemontese che aveva presentato il progetto. «Nell’altro dovevano produrre porte e finestre. Un’altra azienda del Nord che ha preso i fondi ed è sparita». Hanno storie brevi e tutte uguali i grandi scatoloni vuoti che circondano, nell’area industriale di Gioia Tauro, lo stabilimento dell’imprenditore di Rizziconi Antonino De Masi: inaugurati seguendo l’odore dei contributi statali e chiusi, senza troppo rumore, con la chiusura dei rubinetti dei finanziamenti.

La storia della famiglia De Masi, invece, comincia con un odore acre d’officina, olio e motori in panne. Parte impastata della fame del Dopoguerra, attraversa ostinatamente le bombe della ’ndrangheta e le tagliole del sistema bancario e oggi, a oltre 50 anni dai suoi primi passi, produce uno stipendio per 150 lavoratori nella regione in cui il 40% dei giovani tra 18 e i 24 anni un lavoro non ce l’ha.

Alla fine degli anni Quaranta, nella Piana di Gioia Tauro dei grandi latifondi dei notabili e delle schiene piegate dei braccianti, anche Giuseppe De Masi, il padre di Nino, lavora con le mani. Ma la terra non c’entra. Ha una passione per gli ingranaggi e un talento naturale nel risolvere gli intoppi, nel farli funzionare: orologi, sveglie, macchine da cucire, macchine agricole.

L’apprendistato in una piccola officina di Cittanova finisce il giorno in cui apre un bugigattolo tutto suo a Rizziconi: usa le mani talentuose, certo, ma fa funzionare anche la testa. «Ha iniziato a comprare in Emilia Romagna e Lombardia le macchine agricole destinate alle coltivazioni della pianura padana, portandole poi in Calabria ed adattandole alle nostre produzioni agricole: prima gli agrumi, poi negli anni Sessanta le olive, all’epoca ancora raccolte manualmente». L’azienda De Masi nasce nel 1954. Il bugigattolo si ingrandisce, anno dopo anno. Le macchine agricole prodotte tra gli anni Settanta e Ottanta varcano i confini regionali, arrivano in Spagna, Portogallo, Grecia, Israele. Sul finire degli anni Ottanta, però, con la visibilità e le soddisfazioni, arrivano anche gli emissari del racket e le bombe.

«Prima spuntarono le lettere anonime con la richiesta di pizzo, e grazie alle nostre denunce arrivarono anche gli arresti, poi ci piazzarono due ordigni sotto casa. Uno esplose alle 18.00 mentre mio fratello passava con il motorino. Si salvò per miracolo». Un colpo durissimo che il 27 dicembre 1990 spinge l’ex garzone d’officina, che ora ha cinque figli e paga lo stipendio di 110 lavoratori, a chiudere “per mafia” i cancelli dello stabilimento: «Non voglio mettere a repentaglio la vita dei miei familiari. Sono un lavoratore onesto e voglio essere protetto dallo Stato. Sono pronto a trasferirmi altrove», si sfoga quel giorno con i giornalisti. Riaprirà otto giorni dopo. Tra mille dubbi, con la pressione delle istituzioni addosso – in Prefettura gli fanno capire che il suo abbandono rappresenterebbe una sconfitta per lo Stato – ma con il sostegno di figli e dipendenti.

Lo mettono sotto protezione, ma dopo un paio di mesi è lui a rinunciare alla scorta. Nel 1996 il timone è già da tempo nelle mani del figlio Nino, cresciuto sui banchi di scuola la mattina e in azienda, a lavorare, il pomeriggio. Nonostante i condizionamenti “ambientali”, Nino decide di premere sull’acceleratore e, sfruttando le opportunità offerte dalla legge 488, che nel 1992 ha di fatto sostituito la vecchia Cassa del Mezzogiorno, avvia nel quinquennio 1996-2001 una grossa serie di investimenti. Da artigiani, i De Masi diventano industriali e sbarcano nella zona del porto di Gioia Tauro con uno stabilimento che si estende su un’area di 30mila mq. «Ero giovane e volevo cambiare il mondo, credevo che la realtà fosse fatta solo di bianco e nero e che i confini fossero facilmente rintracciabili: invece, compresi ben presto che il nero è anche dove non te l’aspetti». Anche tra le cifre degli estratti conto bancari.

I ritardi e gli intoppi nell’erogazione dei fondi della 488, la cui gestione, tra valutazioni delle pratiche ed emissione delle varie tranche di finanziamento, fu affidata dal Governo proprio agli istituti di credito, hanno costretto la ditta De Masi a ricorrere largamente al credito bancario. Ma i conti, a controllarli bene, non tornano. I tassi di interesse e gli altri “costi” imposti (soprattutto la commissione di massimo scoperto) sembrano superare tutti i limiti previsti dalla legge 108/1996. La legge sull’usura.

La ditta De Masi si ritrova a pagare oneri finanziari per 6 milioni di euro su linee di credito di 12, 13 milioni. Nino reagisce seguendo l’esempio del padre Giuseppe, poco importa se davanti non ci sono gli ’ndranghetisti della Piana ma i colossi bancari italiani: nel 2003 presenta un esposto in Procura. Quattro anni dopo il presidente di Capitalia, Cesare Geronzi, il presidente della Bnl, Luigi Abete, e l’ex presidente della Banca Antonveneta, Dino Marchiorello, vengono rinviati a giudizio dal Gup del Tribunale di Palmi, Carlo Alberto Indellicati, insieme ad altri otto tra funzionari e dirigenti dei tre istituti di credito.

Sul piano giudiziario la vicenda si è conclusa nel 2011, con la sentenza della Cassazione (nr. 46669 del 23.11.2011) che, nel confermare l’assoluzione per i vertici degli istituti di credito, ha comunque stabilito in via definitiva che usura c’è stata e che le banche dovranno rispondere civilmente dell’operato dei propri dipendenti: «Durante il processo di I grado, visto che non si riusciva a risalire a chi avesse dato indicazioni sui tassi da applicare, il presidente del tribunale chiese: “Ma insomma, chi ha fatto queste cose”? Alla fine il pubblico ministero ha detto, dopo una serie di interrogatori: “È stato il computer”. Tutti rispondevano, infatti, che era stata colpa del software». Computer o non computer, le banche dovranno comunque risarcire i danni alla ditta De Masi, costretta, per non soccombere sotto il peso dei debiti, a mettere in liquidazione alcune società e licenziare lavoratori. «Devono pagare per i guasti causati non solo a noi, ma all’intera economia del territorio. Nei fatti, imponendo anche il pagamento di oneri del 40%, hanno incamerato una larga fetta dei fondi destinati allo sviluppo di quest’area». Nel silenzio più totale.

La sentenza, però, non ha chiuso la partita. «Il sistema bancario ormai ci respinge, siamo stati completamente isolati: basti pensare che pur fatturando milioni di euro l’anno siamo l’unica impresa in Italia a non lavorare con le banche: siamo costretti a pretendere, per la vendita dei nostri mezzi, il pagamento anticipato in contanti». La condizione non ha impedito all’imprenditore calabrese di investire 650mila euro per sviluppare il progetto di una cellula di sicurezza contro il rischio dei terremoti. Il “guscio De Masi”, capace di resistere ad un carico di 10 tonnellate, è stato brevettato e presentato nei giorni scorsi: «Abbiamo fatto ricerca di tasca nostra». Per guardare avanti, per rilanciare, ma senza più troppe illusioni sulle sorti del “sistema Calabria”: «Ho smesso di pensare di poter cambiare il mondo. Per i miei figli voglio un futuro lontano da qua. In quanto a me, voglio solo arrivare vivo ad ottenere giustizia».  

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