Ridley Scott prova a imitare Kubrick, ma sembra Piero Angela

Ridley Scott prova a imitare Kubrick, ma sembra Piero Angela

No, non basta Michael Fassbender, l’attore più (super) dotato della sua generazione a salvare l’ultima prova autoriale di Ridley Scott. Col suo ipermodellato ciuffo biondo simil-scandinavo, che lo rende una specie di Peter O’Toole-Lawrence d’Arabia in versione cosmosexual, la pancia in dentro da androide senza l’anima ma con molto palestra, un casco giallo limone da spettacolo camp, delle orride infradito nere, e nonostante tutto questo sadismo costumistico un talento davvero inconculcabile, nemmeno Fassbender rende “Prometheus”, prequel del leggendario “Alien”, quel che vorrebbe essere, cioè la parabola sulla nascita dell’uomo, la sua essenza e il suo destino.

Una sfida quasi kubrickiana, ma che nulla ha da aggiungere a “2001: Odissea nello Spazio” nel racconto dell’oltreuomo nel dopostoria. C’è troppo di fisico, e nemmeno del tutto riuscito, per proiettarsi nel metafisico: troppi mostri piovra, trucidi parti cesarei autoinflitti, titani che sembrano l’evoluzione avatar e surgelata di Mastrolindo senza sorriso, e perfino certe testone monumentali dal profilo così mussoliniano che non sfigurerebbero sui palchi di Casapound.

Il gruppo di scienziati e archeologi, che nella missione Prometheus crede di aver trovato su un pianeta la stirpe primordiale (“gli ingegneri”, non un granché come nome, senza offesa) che ha creato l’uomo, si polarizza su due figure femminili: Noomi Rapace, nel personaggio principale del film, molto brava ma palesemente troppo tappetta per reggere il confronto con la marziale, maschia e ultrasexy Sigourney Weaver; e Charlize Theron, algida figurina che per puntiglio caratteriale, tonicità fisica e tutino nero aderente sembra pronta per un ruolo da porno-prof in un fanta-deamicisiano «Amore e ginnastica».

Scott sceglie la vecchia strada del suo classico horror fantascientifico, ma l’incubo tra il robotico e il corporale non trasmette mai vera partecipazione al mistero che si va sciogliendo; a un certo punto sembra quasi di assistere a una «Gomorra» delle galassie, con certi fusti nascosti nei cunicoli tenebrosi, eruttanti liquame nero che chissà che porcheria chimica è.

Indubbiamente si rivela a tratti come un lampo la grandiosità del regista, in certe intuizioni visionarie, nel riprendere gli eterni e imponenti spazi naturali primigeni, nella forza del gigantismo con cui mette in scena disastri, piogge di silicio, scoppi. Ma tutto appare sfibrato, non adeguato alle ambizioni, con certe musiche – nei momenti lirici – che sembrano chieste in prestito al Piero Angela di «SuperQuark”.

Da Scott, autore di uno dei maggiori esiti artistici del XX secolo come «Blade Runner», è più che lecito attendersi molto, molto di più. Anche perché l’impressione è che non abbia affatto perso verve, ma che fatichi – e da un po’ di anni ormai – a trovare storie all’altezza del suo valore.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter