Sembrava scomparsa dall’orizzonte politico. Grazie a un animato confronto, un «duello» fra esponenti dei principali schieramenti parlamentari e politologi di spicco promosso dalla Società italiana di Scienza della politica alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università Roma Tre, si sono aperti spiragli inaspettati perché la riforma maggioritaria uninominale ritorni come opzione percorribile nel dibattito sulla nuova legge elettorale.
Merito di un rilancio forse destinato a scompaginare accordi già delineati nelle trattative condotte dalle nomenclature partitiche spetta al politologo dell’Università di Firenze Roberto D’Alimonte, convinto fautore di una riforma di stampo francese, fondata sui collegi maggioritari a doppio turno. Per illustrarne la bontà lo studioso critica alla radice la scarsa credibilità dei novelli sostenitori del proporzionale.
A Denis Verdini e Italo Bocchino, che come tutti i rappresentanti della ex Casa delle libertà oggi denunciano il premio illimitato di governabilità previsto dal Porcellum e accusano il Pd di volere una legge calibrata sulle proprie ambizioni, l’editorialista del Sole 24 Ore chiede dove fossero nell’autunno del 2005 quando votarono la legge in vigore con il suo abnorme bonus di maggioranza, «il testo su misura per eccellenza, concepito per rispondere alle esigenze del centrodestra dell’epoca, Udc compresa».
Nell’attuale fase storica, rimarca D’Alimonte, abbiamo un disperato bisogno di “modelli disproporzionali”, in grado di esaltare il valore di una vittoria elettorale e trasformare la forza dei voti in capacità di governo. «E non esiste meccanismo capace di interpretare tale esigenza come quello francese, grazie al quale il Partito socialista è riuscito a conquistare la Presidenza della Repubblica e la maggioranza assoluta dei parlamentari con il 28 per cento dei suffragi. Un paese in cui nessuno si lamenta della scarsa democraticità del voto».
Al contrario, osserva lo scienziato politico individuando un legame tra i contenuti della trattativa e gli sbocchi post-elettorali del 2013, la legge a cui stanno lavorando i partiti principali è del tutto inadeguata alle esigenze di governi politici forti, omogenei e di ampio respiro. «A spingere per un proporzionale corretto da un bonus del 10 per cento alla formazione vincente, che rende inevitabile lo scenario della Grande coalizione per i prossimi anni, è il Pdl, che non può vincere le elezioni nemmeno candidando il Pontefice e non è capace di formare nessuno schieramento di centrodestra nella sua odierna solitudine. Si è realizzato un capovolgimento integrale e paradossale negli ultimi venti anni, per cui il Cavaliere, inizialmente campione del bipolarismo e del maggioritario, è oggi fautore del meccanismo speculare più puro».
Nella stessa direzione, puntualizza il professore fiorentino, opera la formazione di Pier Ferdinando Casini, che per radici culturali e storia sceglie di esercitare un ruolo arbitrale in una futura Grosse Koalition anziché impegnarsi in una complicata alleanza di governo con il Partito democratico. «Che finalmente riesce a cogliere le strategie dei suoi attuali partner parlamentari, e propone un premio più elevato alla coalizione vincente». In termini elettorali, spiega lo studioso, agli uomini del Nazareno converrebbe per ora mantenere la legge Calderoli.
«Di fronte a un centrodestra diviso, il Pd potrebbe contare su tre strade vincenti: l’alleanza di sinistra rappresentata dalla foto di Vasto, l’asse preferenziale con l’Udc, e una corsa in piena autonomia che lo porterebbe al 33-34 per cento ottenuto nel 2008 da Veltroni». È quest’ultima prospettiva ad aprire gli scenari più promettenti per chi ha a cuore un’innovazione maggioritaria e uninominale della realtà partitica e istituzionale: «Se fosse in grado di conquistare con le sue forze la grande maggioranza dei seggi, il Pd potrebbe impegnarsi a realizzare nella prossima legislatura una riforma di tipo francese».
Una trasformazione epocale che, per la politologa dell’Università di Bologna Sofia Ventura, sarebbe possibile attraverso un «compromesso alto e innovatore, profondamente diverso dalla mediazione fine a se stessa pur di cambiare il Porcellum attualmente in discussione. Un testo pieno di premi inutili ai fini di una effettiva governabilità, frutto delle micro-pressioni partigiane a favore della proporzionale e delle preferenze in atto nei singoli partiti, che ci avvicina pericolosamente alla Grecia e a scenari preoccupanti per la tenuta democratica del paese, se l’esperimento di una Grande coalizione guidata da Monti anche nel 2013 dovesse fallire».
Ma su una riforma ambiziosa che ci avvicini a Parigi piuttosto che ad Atene, permane un veto assoluto da parte del Pdl. Così lo stato maggiore del Nazareno, ricorda D’Alimonte, si è impegnato a raggiungere un punto di incontro su un testo proporzionale. Perché? Perché il Pd, che nel giugno 2009 aveva approvato all’unanimità nella propria Assemblea nazionale l’obiettivo di una riforma integralmente maggioritaria uninominale a doppio turno, ha abbandonato in partenza un progetto di tale respiro? Perché ha rinunciato frettolosamente a qualunque tentativo di incoraggiare nel fronte conservatore e moderato una riflessione sulla validità del meccanismo francese, e di convincere la maggioranza dei parlamentari ad approvarlo nelle Camere?
La giustificazione addotta dagli esponenti del Nazareno, «sul doppio turno siamo rimasti soli», è ampiamente opinabile. Non solo per gli scenari imprevedibili che una decisa battaglia da parte di una grande forza politica nazionale in Parlamento e nell’opinione pubblica avrebbe potuto determinare anche negli altri schieramenti, e nel loro elettorato. Ma anche per le numerose e significative manifestazioni di interesse per il meccanismo d’Oltralpe provenienti da esponenti di primo piano del centrodestra. E da uomini orgogliosamente di destra come Bocchino, che osserva come il modello oggi più utile all’Italia sia proprio quello francese.
«A differenza del Mattarellum e del Porcellum, che in forme differenti creavano con un turno unico di voto contenitori eterogenei e neutralizzavano sul nascere le politiche riformiste, il meccanismo transalpino permette alle forze identitarie di presentarsi autonomamente come il Front National senza mettere in crisi le coalizioni di governo, e favorisce un profondo ricambio del ceto dirigente come dimostra la tornata legislativa francese».
La riflessione appassionata di D’Alimonte trova risonanza nell’intervento di Luciano Violante. Il quale una risposta al ragionamento del politologo fiorentino prova a fornirla, proponendo ufficialmente il ripristino del Mattarellum come strada semplice, ragionevole e rapida per sbloccare lo stallo provocato dai veti e dagli interessi contrapposti. Un’ipotesi che «richiederebbe un accordo in tempi brevi e alla luce del sole fra le forze in campo, e la redazione di un unico articolo con cui riportare in vigore il meccanismo prevalentemente fondato sui collegi di tipo britannico e su una robusta correzione proporzionale con liste bloccate ridotte, che ha governato le tornate di voto dal 1994 al 2001».
Allo scopo di rendere coerente un testo che fu l’obiettivo di oltre un milione di firme a sostegno della richiesta referendaria dell’estate 2011, l’ex magistrato pone tre condizioni: l’eliminazione dello scorporo, che penalizzava fortemente lo schieramento collegato al candidato vincente nei collegi, la previsione di un unico voto valido per la parte uninominale e per quella di lista, e la distribuzione dei seggi della quota proporzionale alle forze che abbiano superato il 5 per cento dei suffragi. Agli occhi di Violante deve essere la governabilità «l’obiettivo primario di un modello di voto che non ci porti automaticamente alla Grande coalizione».
Accanto alla disproporzionalità evidenziata dall’editorialista del Sole 24 Ore, l’esponente del Pd individua l’altra grande esigenza civile «nella necessaria ricostruzione delle prerogative decisionali, di controllo e di indirizzo del Parlamento, che deve rappresentare efficacemente la società e i territori, e non solo i vertici dei partiti, favorendo una dialettica democratica in tutti i gruppi politici».
Per ripristinare un rapporto di fiducia e responsabilità tra opinione pubblica e istituzioni, il giurista conferma il rifiuto per il meccanismo della preferenza, «che favorisce chi è già famoso e dotato di mezzi economici, acuisce le lacerazioni interne e lo sgretolamento di forze già deboli, e non favorisce il rinnovamento del ceto dirigente». Critica sviluppata dal politologo dell’Università di Napoli Federico II Mauro Calise: «L’adozione della preferenza unica nel voto amministrativo ha provocato una personalizzazione localistica speculare al predominio delle oligarchie nazionali sui parlamentari».
Forte di evidenti riscontri empirici, Violante propone il recupero e la revisione del Mattarellum, superando la piattaforma di tipo tedesco così come la bozza ispirata al meccanismo delle elezioni provinciali, falsamente uninominale. Ed è lui questa volta a rivolgere la domanda a Verdini: 1Il Popolo della libertà condivide tale obiettivo?»
Ma la risposta dello sherpa del Pdl al tavolo delle trattative sulla riforma è vaga. Sul piano personale Verdini sarebbe pronto a discuterne, ma senza assumere ufficialmente alcun impegno in tal senso.
A Roberto D’Alimonte che gli contesta il veto assoluto su una riforma di stampo francese, il parlamentare toscano ricorda come «l’opzione per il maggioritario uninominale a due turni sia per noi vincolata a una contemporanea innovazione costituzionale semi-presidenziale. Poiché nessuno regala nulla». Parole chiare, rivelatrici di una visione che permea l’intero mondo politico e considera le istituzioni e la loro riforma come un terreno di scambio per soddisfare le reciproche convenienze.
Contraddetto dallo stesso Violante, disponibile a discutere seriamente e nei tempi necessari anche di presidenzialismo, il rappresentante del centrodestra ritiene che “la radicale opposizione del Pd al progetto di investitura popolare del Capo dello Stato con poteri di governo abbia archiviato qualunque ipotesi di tipo francese”. Quindi illustra la posizione del Pdl sugli altri modelli. “Siamo decisamente contrari all’adozione del maggioritario uninominale secco di stampo britannico, dopo aver vissuto l’esperienza del 1996, in cui prevalemmo sull’Ulivo nella parte proporzionale perdendo rovinosamente nelle competizioni di collegio”.
Affermazione clamorosamente sconfessata dall’esito delle altre due tornate celebrate con il Mattarellum, vinte nettamente proprio dal centrodestra, protagonista nel 2001 della conquista di tutti i collegi elettorali della Sicilia con uno storico 61 a zero. A dimostrazione che il meccanismo britannico e francese comportano un’elevata capacità da parte delle forze politiche di designare candidati credibili e autorevoli nei singoli collegi, Calise mette in risalto l’inadeguatezza del ceto dirigente italiano agli standard richiesti dal maggioritario uninominale: «Quasi nessuno degli uomini politici ne comprese il valore e il funzionamento, come rivelano la dissoluzione del progetto di costruzione dal basso di una grande aggregazione politico-culturale riformista, e la disintegrazione della corazzata berlusconiana alla prova del governo».
Escluse le strade per Londra e per Parigi, il coordinatore del Pdl esprime una propensione per il modello spagnolo, un proporzionale con distretti di piccole dimensioni e liste bloccate molto corte, in grado di premiare notevolmente le due formazioni principali e i partiti con forte radicamento regionale. «Un sistema che ha creato una solida dinamica bipartitica e competitiva, in cui nessuno parte mai con la certezza di vincere. Un meccanismo tuttavia da adattare e correggere per incontrare l’adesione delle formazioni che in Italia ne sarebbero penalizzate».
E il pensiero corre all’Udc di Casini. Ricercare l’accordo più ampio possibile è la parola d’ordine. La stella polare che guida le trattative in corso è ancora una volta il compromesso accettabile da tutti, la mediazione fra punti di vista differenti se non antitetici. Che deve prevalere sul contenuto, sulla bontà intrinseca della riforma. Una prospettiva che abbraccia l’intero universo politico, incoraggiata dalle più alte cariche istituzionali e assecondata nel silenzio di voci critiche dalla quasi totalità dei mezzi di informazione. Con il risultato che in tema elettorale l’alternativa si è ristretta fra la conservazione del Porcellum e la restaurazione della prima Repubblica.
La radice profonda di questo atteggiamento mentale risiede in una cultura imperniata sulla centralità dei partiti politici e sull’esaltazione dei loro posizionamenti, manovre tattiche, alleanze geometriche. Così l’attenzione è focalizzata sul disegno recondito contenuto nella proposta di un gruppo politico e sulle reazioni dei suoi avversari. Se l’accento fosse posto non sulle polemiche fra oligarchie partitiche ma sulla contrapposizione e sul confronto aperto tra modelli alternativi di riforma elettorale e istituzionale, le conseguenze sarebbero dirompenti.
L’opinione pubblica dovrebbe conoscere e giudicare il valore delle differenti proposte in campo attraverso un dibattito ampio e coinvolgente, in cui si costituirebbero alleanze ad hoc di chi è a favore del proporzionale tedesco, del meccanismo spagnolo, di quello greco, di un maggioritario di collegio nella sua variante francese o anglosassone. Si metterebbe in moto un processo genuinamente democratico alla fine del quale deciderebbero i cittadini e il Parlamento. E si tratterebbe di una scelta limpida e univoca, per nulla traumatica. Nessuno oserebbe denunciare la prevaricazione di un gruppo o di uno schieramento per avvantaggiare se stesso e mortificare gli altri con l’approvazione a maggioranza di una legge elettorale su misura.