Tra Di Caprio e Lennon, il grande ritorno di un Dylan col cuore in tempesta

Tra Di Caprio e Lennon, il grande ritorno di un Dylan col cuore in tempesta

Ritorna Bob Dylan, “il poeta laureato del Rock’n’roll”, “l’artista della Columbia”, come ci ricorda, all’inizio di ogni concerto, la voce dello speaker attraverso gli altoparlanti. Ritorna con un nuovo disco di inediti, a quattro anni da Toghether Through Life e tre dopo il (rivedibile) progetto “natalizio” Christmas in The Heart. Smesso il cappellino da Babbo Natale, l’eterno bambino Bob ha deciso di rituffarsi in studio di registrazione, fissando una pausa – nemmeno poi tanto lunga – al suo cosiddetto Neverending Tour, con cui il cantautore americano gira il mondo dal 1988. Il risultato è Tempest, in uscita il 10 settembre: un disco arcigno, citazionista as usual, amaro, cupo a grandi tratti. Dieci le canzoni che lo compongono, tra cui Duquesne Whistle, di cui vi abbiamo già mostrato il video ufficiale.

Dylan, da appassionato di poker qual è, bluffa con il titolo: forse un riferimento a The Tempest, l’ultima opera di William Shakespeare? Zimmermann ha già smentito, scorbutico come sempre: «Quella di Shakespeare era “La Tempesta”. Non soltanto “Tempesta”. Il mio disco si chiama “Tempesta”. Sono due titoli diversi», ha raccontato a Rolling Stone. Il temporale è prima di tutto nell’anima del cantautore di Duluth, un vero e proprio fortunale d’altri tempi: le sonorità ruvide e rock dell’album sono testimonianze di questo rimescolamento spirituale. Dylan alterna colpi bassi e montanti, ballate cineree – Scarlet Town, Tin Angel, Soon After Midnight – e scariche rock-blues – Narrow Way, Pay in Blood, Early Roman Kings. Tutte le canzoni compongono un continuum spazio-temporale in cui il pellegrino Dylan lascia l’inchiostro fluire lungo i sentieri del suo io più recondito, attraverso la vita, definita in Narrow Way «una strada lunga e stretta».

Il culmine del disco si tocca nella title track, Tempest, una narrazione di quattordici minuti dell’affondamento del Titanic, che diventa una riflessione sulla vita, sulla morte e sulla volontà divina. Come in molti dei suoi testi, anche qui Dylan sovrappone più di un livello di riflessione, affidando alla sua collezione di personaggi la rappresentazione dei tanti aspetti dell’umano. C’è il capitano, l’umile mozzo, l’arrogante nobile, persino Leonardo di Caprio che dipinge sul proprio quaderno, in una citazione del celebre film di James Cameron. Tutti diventano uguali davanti alla morte: «Quando la Mietitrice ha terminato il suo compito, in milleseicento riposano in pace. Il buono, il cattivo, il ricco, il povero, il più amabile ed il migliore, aspettavano sul pontile e ora cercano di capire. Ma non esiste comprensione del giudizio della mano di Dio».

Abbondano come sempre i riferimenti letterari e musicali. I Beatles tornano a più riprese: non solo nella conclusiva Roll On John, dedicata alla memoria di John Lennon, ma anche nella toccante Long and Wasted Years, dove viene citato un verso di Twist and Shout. Proprio la ballad in questione, sorta di “canzone dell’amore perduto” ambientata in un saloon, tenera e cruda allo stesso tempo, è uno degli episodi più riusciti dell’album: «Non vedo la mia famiglia da vent’anni, potrebbero essere già morti». Il mondo è descritto attraverso luoghi ed ambienti metaforici, come Scarlet Town, «la città da cui vorresti scappare e in cui resti imprigionato», dove «le strade hanno nomi che non si possono pronunciare», o come il treno di Duquesne Whistle, che «viaggia giorno e notte fischiando», ogni volta «come se fosse il suo ultimo viaggio».

Musicalmente Tempest è un buon disco, ma perde tutta la sua capacità espressiva se privato dei testi, davvero fondamentali. É un album in cui Dylan affronta il tema della miseria della vita e dell’ineluttabilità del destino con il sarcasmo poetico dei giorni migliori. Un disco ricco di vicoli della desolazione, che mescola swing, rhytm’n’blues, rock’n’roll al “solito” folk, e che passa senza lasciare tracce solo nelle orecchie dell’ascoltatore più disattento. La trentacinquesima prova su strada di Robert Allen Zimmermann è, senza dubbio, una delle sue migliori, soprattutto se si guarda all’ultimo periodo. Dylan sa che non può migliorare ancora: tutto quello che deve fare, è fare ciò che sa. E Tempest è la dimostrazione che il cantautore ha ancora qualcosa da dare alla musica, a settantuno anni compiuti: come lui stesso sintetizza in un verso di Pay in Blood: «The more I take, the more I give. The more I die, the more I live». 

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