Più che un convegno su “I nostri campioni e le sfide dell’economia mondiale”, come da programma, quello andato in scena stamani all’Università Bocconi è stato di fatto un panel su Fiat. Inevitabile, vista la vaghezza di quanto emerso sabato scorso al termine del confronto tra l’azienda, il premier Monti, e i ministri Passera, Fornero e Barca. Se il convitato di pietra era dunque Sergio Marchionne, il refrain emerso più volte nel corso dei lavori, e non a caso – la filiera dell’automotive occupa 200mila persone – è stato il ruolo della manifattura nel rilancio della domanda e dei consumi.
A scaldare l’aula magna dell’ateneo milanese –in platea a dire il vero c’erano più professori che studenti – ci ha pensato da subito il patron di Tod’s Diego Della Valle, sempre più a suo agio nei panni del grande fustigatore del capitalismo di relazione, di cui peraltro ha fatto parte fino a ieri. L’imprenditore, uscito dal patto di sindacato di Rcs in aperta polemica con la gestione del presidente Fiat John Elkann e di quello di Mediobanca Renato Pagliaro, la scorsa settimana è salito dal 5,4 all’8,7% della casa editrice del Corriere della Sera, diventando il secondo azionista privato più rilevante dietro a Giuseppe Rotelli, imprenditore attivo nella sanità privata. Proprio sui patti di sindacato sono arrivate le ormai consuete critiche al vetriolo: «I patti di sindacato sono fatti da persone che hanno perso il senso del mercato», e ancora: «alcune persone che appartengono ai salotti buoni sono persone perbene, ma l’impressione è che per qualcuno sia diventato imbarazzante starci, del resto hanno effetti devastanti sulle imprese», ha osservato l’imprenditore marchigiano rispondendo a una domanda, aggiungendo: «Il mercato vero li ha già spazzati via».
Il destinatario principale delle bordate di Della Valle, in questo periodo, rimane però il Lingotto: «La Fiat è stata presa con le mani nella marmellata perché hanno deciso di andarsene due anni fa, i loro uffici stampa lavorano più dei loro uffici di progettazione», ha gridato ai bocconiani, osservando tagliente: «La crisi esiste per chi non ha nulla da vendere». Poi la denuncia, dopo aver invocato l’intervento di Volkswagen e aver definito i vertici Fiat «degli improvvisati che ci prendono in giro»: «In questo Paese c’è sempre il gruppo di benpensanti che quando uno fa critiche dice che non è questo il modo di fare, ma chiederei agli operai di Termini Imerese se sono eleganti le lettere che hanno ricevuto e che prefigurano la perdita del posto di lavoro». Ovazione e immediata replica di Marchionne, dal palco dell’Unione degli industriali di Torino: «La smetta di rompere le scatole. Con quanto lui investe in un anno in ricerca e sviluppo noi non ci facciamo nemmeno una parte di un parafango». E controreplica di Della Valle: «Deve rispondere agli operai e non a me. Sarebbe più utile ci facesse vedere i modelli che venderà una volta finita la crisi».
Meno esplicite ma ugualmente ficcanti le parole del presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè: «Non ci siamo lamentati dicendo che in Brasile (Tim Brazil è il secondo operatore del Paese dopo Vivo, ndr) va meglio, ma ci siamo dati da fare», ha detto il manager, che alla fine degli anni ’70 lavorava come capo economista proprio alla Fiat. Poi l’elogio a Della Valle: «Le sue parole testimoniano la capacità dell’Italia di risolvere e superare i problemi». Il presidente di Telecom, che non ha mancato di ricordare come «il nostro primo dovere era salvare l’azienda, ci siamo ritrovati con un’azienda con 37 miliardi di debito, da quando ci sono io il debito si è ridotto di 10 miliardi», ha insistito – citando The Big Switch di Nicholas Carr – sull’importanza del cloud per le imprese italiane, troppo piccole e troppo poco digitalizzate. «In Italia – ha sottolineato Bernabè – ci sono 4 milioni di imprese con meno di 4 addetti, che spendono in Ict 800 euro l’anno». Inezie: «L’Italia spende l’1,6% del Pil in Ict contro una media europea del 3,6% e del 4% degli Stati Uniti».
Un punto, quest’ultimo, caro alla Confindustria di Squinzi almeno quanto gli investimenti in ricerca e sviluppo, indispensabili per rimettere in piedi il sistema manifatturiero nazionale, che non può prescindere da un’industria dell’auto forte, in cui ci sia Fiat. «Il Canada, unico Paese che dal 2008 non ha conosciuto cali del Pil, ha investito massicciamente in ricerca e innovazione. In Italia l’Irap ci penalizza», ha detto il presidente di viale dell’Astronomia, per il quale il dato sull’avanzo commerciale da 4,5 miliardi registrato a luglio dall’Istat e salutato positivamente, in realtà «non è positivo perché deriva dal calo delle importazioni». Per Squinzi, dunque, la manifattura si aiuta abbassando le tasse, e non chiedendo nuovi incentivi: «Rinuncerei agli incentivi se il carico fiscale si riducesse», ha detto Squinzi. Anche se, dei famosi 10 miliardi individuati da Francesco Giavazzi, docente bocconiano e commissario per la spending review, «secondo i dati di Confindustria gli incentivi non rappresentano più di 3 miliardi l’anno».
«Se non avessimo saputo valorizzare la manifattura non potremmo pagare la nostra bolletta energetica», è la riflessione, a conclusione dei lavori, del ministro Passera, che ha rivendicato l’introduzione – dal giorno zero del governo tecnico – dell’Ace (allowance for corporate equity), provvedimento che consente la trasformazione delle imposte differite in crediti d’imposta. «La dimensione critica delle imprese è un tema rilevante per fare gli investimenti che servono. In Brasile (Paese dove si è recato in missione la scorsa settimana e dove gli investimenti Fiat sono finanziati all’85% dal pubblico, ndr) le possibilità sono state colte dalle imprese in grado di investire senza ritorni per anni», ha detto Passera riprendendo uno dei suoi classici cavalli di battaglia. Come? Eliminando «le regole giuslavoristiche e fiscali che premiano chi rimane piccolo». Non ha infatti senso, per Passera, avere un’università, un aeroporto, e un ospedale in ogni città.
Quando però si tratta di passare dai massimi sistemi al particolare, cioè alla Fiat, Passera va con i piedi di piombo, limitandosi a registrare il disaccordo dell’esecutivo per l’assenza di nuovi modelli da lanciare sul mercato – oggi il Wall Street Journal scrive che il lancio dell’Alfa Giulia è stato posticipato al 2014 – e il generico impegno «non quantitativo» dell’azienda a mantenere la testa pensante in Italia. «Non sono state fatte richieste di soldi né annunci di esuberi», osserva con soddisfazione il ministro, che tuttavia riconosce: «Il tema più delicato è quello degli stabilimenti italiani, molti dei quali a bassisimo regime, che si riempiranno soltanto in funzione di prodotti di successo». Un punto di centrale importanza sul quale il titolare dello Sviluppo Economico non ha fornito ulteriori chiarimenti, limitandosi a ripetere, a grandi linee, il contenuto del comunicato stampa congiunto diramato da Palazzo Chigi sabato notte al termine del difficile meeting con Marchionne e il presidente John Elkann. Domani è previsto l’incontro presso il dicastero di via Veneto con i sindacati, assieme al ministro del welfare Elsa Fornero, ma difficilmente si saprà qualcosa di più sul futuro degli operai in cassa integrazione di Melfi, Pomigliano, Cassino e Mirafiori. È su questo terreno, infatti, che si gioca il futuro della manifattura, riconosciuta da tutti come la conditio sine qua non per il rilancio del Paese.