Teheran, agosto 2012, sedicesimo vertice dei non allineati. Scorrendo la lista dei partecipanti ci si imbatte nei principali spauracchi dell’Occidente, da Hugo Chavez al sudanese Omar al Bashir, per quanto non manchino gli alleati di Washington, alcuni affidabili, come l’India di Singh, altri più ambigui, come il Pakistan di Zardari. Ma la presenza più attesa è un’altra. Non quella di Ban-Ki-Moon, il segretario generale dell’Onu, che, malgrado le pressioni della Casa Bianca, non ha cancellato l’impegno dalla sua agenda. I riflettori sono puntati sul presidente egiziano Morsi, e non solo per via del recente showdown, che ha portato il neo-leader, primo capo di Stato democraticamente eletto nella terra dei faraoni, a decapitare l’intero vertice militare. Il punto è un altro. Il Cairo e Teheran non hanno relazioni diplomatiche dalla rivoluzione khomeinista, che pose fine al regno dello scià. Fu l’Iran a volere la rottura, dopo il trattato di pace firmato da Egitto ed Israele nel 1979. Ma la ripresa dei rapporti tra il principale rappresentante del mondo sciita e la grande potenza sunnita è la spia di uno spostamento di prospettiva da parte del Cairo, o meglio di un tentativo di ridefinire e bilanciare il sistema delle alleanze internazionali.
Illuminante, in questo senso, è un’intervista concessa qualche giorno fa da Morsi all’agenzia Reuters. L’esponente dei Fratelli Musulmani, che arriva oggi a Roma, è partito da una premessa marcata d’orgoglio, con cui ha sottolineato le distanze dall’era Mubarak: «Adesso l’Egitto è uno Stato civile, nazionale, democratico, moderno». Poi ha proseguito spiegando le proprie idee in materia di relazioni internazionali: «I rapporti tra gli Stati sono aperti e la base di questi rapporti deve essere bilanciata. Noi non siamo contro nessuno, ma cerchiamo di difendere i nostri interessi». La parola chiave è bilanciamento, tra Iran e Israele, tra Stati Uniti e Cina. Morsi, in sostanza, non intende apparire come la testa di ponte americana nella regione, ma al tempo stesso non vuole la rottura con i suoi tradizionali alleati, anche perché non può permetterselo. Le casse statali sono vuote e il Cairo ha appena chiesto un prestito di 4,6 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale, dopo una visita del direttore generale del Fmi, Christine Lagarde. Il sostegno economico di Washington – 250 milioni di dollari l’anno in aiuti civili, più 1,3 miliardi destinati all’esercito – è indispensabile e non può essere sostituito dai crescenti interventi finanziari di altri Paesi, come il Qatar, che ha appena girato all’Egitto un assegno da 500 milioni di euro.
Anche nei rapporti con Gerusalemme Morsi continua a mostrare doti di equilibrista, evita i toni accesi della tradizionale propaganda islamista – Israele razzista e colonialista – e conferma la necessità di volere rispettare i trattati internazionali sottoscritti dal suo Paese, compreso l’accordo di pace con lo Stato ebraico. Netanyahu, sostiene il nuovo faraone, non ha nulla da temere dalla campagna militare egiziana nel Sinai, in risposta all’assassinio, per mano jihadista, di sedici guardie di frontiera, lo scorso 6 agosto: «Stiamo svolgendo una normale operazione sul nostro territorio e non minacciamo nessuno. Non ci dovrebbe essere alcuna preoccupazione riguardo alla presenza delle nostre forze di sicurezza in quell’area». Il riferimento è ai reparti speciali di polizia ed esercito inviati nella zona, demilitarizzata proprio in seguito all’intesa del 1979. Morsi non ha ancora incontrato personalmente alcun leader israeliano, anche se si sta lavorando, su iniziativa americana, a un colloquio con il presidente Shimon Peres, in occasione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, fra una decina di giorni.
Nel frattempo, alla ricerca di un bilanciamento tra poli opposti, il leader egiziano è volato a Teheran. Dove, però, non ha usato parole tenere nei confronti del maggior alleato dell’Iran, la Siria di Bashar al Assad: «La carneficina siriana è sulle nostre spalle e non può essere fermata, se non per via di un’effettiva interferenza da parte nostra. La lotta contro un regime oppressivo che ha perso la sua legittimità è un dovere etico». Un attacco che ha portato all’immediato ritiro della delegazione di Damasco dall’aula del vertice, e che non è piaciuto a Teheran. Ma l’obiettivo del bilanciatore Morsi è quello di creare una sorta di gruppo di contatto sulla Siria, formato da quattro pilastri dell’area – Egitto, Arabia Saudita, Turchia e Iran – per uscire dall’impasse. Senza negoziato non c’è possibilità di fermare il conflitto. E il negoziato deve avvenire con il coinvolgimento degli ayatollah, maggiore sponsor di Damasco, e con il consenso della Russia e della Cina.
Già, Pechino. Il presidente egiziano è partito qualche settimana fa alla volta del Dragone. Una visita proficua, che ha portato alla firma di sette accordi economici, principalmente di natura infrastrutturale: la nascita di un grande hub energetico nell’Alto Egitto, la realizzazione di un impianto di desalinizzazione, la costruzione di una linea ad alta velocità tra il Cairo ed Alessandria, lo sviluppo della rete Internet. In coincidenza con l’arrivo di Morsi si è tenuto a nella capitale cinese un forum imprenditoriale sino-egiziano, con la partecipazione di circa 80 businessman cairoti. Con il suo viaggio il leader del nuovo Egitto ha raggiunto un duplice obiettivo: attrarre sempre maggiori investimenti cinesi – l’interscambio trai due Paesi è fiorito sotto l’era Mubarak, passando dai 610 milioni di dollari del 1998 ai 6,2 miliardi di dollari del 2008, fino ai 9 miliardi di dollari del 2011 – e ridurre la dipendenza dal sostegno americano. Usando il bilancino, insomma.