Assemblea Pd: la danza macabra di quel che resta di un partito

Assemblea Pd: la danza macabra di quel che resta di un partito

Forse in extremis i due contendenti, Bersani e Renzi, si metteranno d’accordo: Ma l’assemblea del Pd che si svolge oggi appare surreale come quel consiglio nazionale dei Ds di fine giugno-inizio luglio del 94. Anche allora lo scontro era fra un candidato che si presentava come più moderno e godeva dei favori dei media (soprattutto di Eugenio Scalfari e di Repubblica) e un altro che appariva rassicurante per la pancia del partito.

Veltroni e D’Alema iniziarono in quei giorni a dividersi, anche se la contesa fu piena di salamelecchi formali e di scontri all’ultimo insulto fra gli apparati contrapposti. Walter aveva vinto le primarie dei fax con quasi diciannovemila suffragi raccolti nella base. D’Alema si aggiudicò la maggioranza dei membri del Consiglio nazionale con 249 voti raccolti uno sull’altro da un infaticabile Claudio Velardi.

Quel consiglio nazionale apparve subito come anacronistico rispetto alle nuove domande della politica. Non già per l’esito del voto: D’Alema era il leader più forte del Pd, inviso a Scalfari – e fu un titolo di merito, che il giorno dopo la sua vittoria titolò “Il pugno del partito” – quanto per la sua composizione. Quel Consiglio era sovraccarico di vecchi elefanti, anche se, scusate se è poco, si parlava di Iotti, Napolitano, Pecchioli, Reichlin e Trentin, cioè la classe dirigente aurea del Pci. Oggi stiamo discutendo di figurette politiche che non troveremo nell’indice dei nomi dei libri di storia su questi anni. Tuttavia il Consiglio nazionale che rovesciò il responso del popolo dei fax era, come l’Assemblea di oggi, lo specchio delle contraddizioni di un partito che non sapeva che cosa diavolo dovesse essere e chi dovesse rappresentare.

Restiamo al presente. L’Assemblea che si sta riunendo è formata da circa mille delegati. Una cifra sproporzionata. Solo in Italia si fanno le cose così in grande e si scambia la rappresentanza con la folla di uno stadio nel derby. Sono stati tutti eletti nel 2009, quando le primarie – le uniche vere perché lo scontro fra Bersani e Franceschini fu una cosa contrastata – elessero la nuova classe dirigente. Tre anni, da allora, sembrano un secolo allo stesso gruppo dirigente dei democrats, se è vero che il Pd ritiene che quei tre milioni e passa di elettori che scelsero Bersani sono scaduti come uno yogurt mal conservato. Per ciò bisogna riconvocarne altri (o gli stessi) per dirimere la questione posta da Matteo Renzi.

La cosa buffa è che, mentre i votanti sono considerati scaduti, l’assemblea che essi elessero, invece, può legiferare sulle regole del prossimo voto. A questi mille prodi – fra cui ci sono tanti che se ne sono andati dal partito – spetterà dirimere la controversia insorta fra l’apparato di Renzi e quello di Bersani. Ma possono farlo per vie traverse. A loro non spetterà scrivere le regole, ma dare il via libera a Bersani per scriverle con gli alleati Vendola, Tabacci e Nencini, tutti più bersaniani della fedele e ciarliera Chiara Geloni, direttrice incontinente di Youdem. La singolarità del consesso che si sta riunendo è che non ha mai contato nulla nella vita del partito.

Generalmente siamo stati abituati a considerare gli organismi dei partiti veri come cuore pulsante di una formazione politica. Lì si dovrebbe addensare la storia e il futuro, la saggezza e la temerarietà. Invece, così come il Consiglio nazionale che incoronò D’Alema, l’Assemblea di oggi non si sa chi rappresenti visto che in tre anni ha rivelato la sua pletoricità e la sua inutilità. Anche questa è una singolarità del Pd. Non c’è niente in questo partito che sia coerente con le sue premesse.

Se fosse un partito liquido e moderno gli basterebbe avere un piccolo gruppo dirigente centrale sottoposto alla volontà di un organismo agile e snello da convocare rapidamente e integrato da forme di partecipazione più moderne, la Rete ad esempio. Se fosse un partito all’antica avrebbe bisogno di affidare al suo parlamentino, anche qui più snello, poteri effettivi che l’assemblea odierna ha solo sulla carta. Invece il Pd è sufficientemente liquido da dar l’idea di sciogliersi al sole e sufficientemente burocratizzato da far scaturire le sue decisioni dal caminetto di capicorrenti che si moltiplicano in forma spontanea.

Matteo Renzi di questa contraddizione è figlio e boia. È nato da questo impasto di incoerenze, e da loro si vuole emancipare. Bersani evoca antica gloria partitista ma deve invece soggiacere alla magnificenza pletorica dei suoi organismi rappresentativi. Così, una folla da stadio di provincia riempie in questo momento l’albergo romano dei concorsi statali, il mitico Ergife, a porte chiuse per la stampa, si dice, ma chiuse soprattutto perché se una decina di delegati va a fare pipì fuori dall’hotel l’assemblea non ha più il numero legale. E questo ambaradam si rivela del tutto inutile. Come una battaglia fuori tempo. 

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