II decreto legge “2.0” approvato dal governo per rilanciare la crescita contiene alcune misure, care al ministro Passera, per favorire gli investimenti in grandi infrastrutture (progetti d’importo superiore a 500 milioni di euro) attraverso il partenariato pubblico-privato (PPP).
Si tratta di un credito di imposta ai fini IRES e IRAP che viene concesso a condizione che per le stesse opere
i) non siano previsti contributi pubblici a fondo perduto;
ii) sia acclarata la non sostenibilità del piano economico finanziario. In totale il credito non può superare la metà del costo dell’investimento. La concessione d’imposta è (fortunatamente!) soggetta alla delibera del CIPE che deve valutare se l’incentivo fiscale è sufficiente a rendere il progetto economicamente sostenibile.
L’incentivo riguarda dunque progetti “non bancabili”, cioè quelli che hanno un valore attuale dei ricavi inferiori ai costi, e dunque tali da far si che nessuna impresa privata abbia interesse ad effettuarlo e nessun finanziatore a finanziarlo. Il presupposto del ministro è per tali progetti si sia in presenza di un “fallimento del mercato”: i privati non calcolano i “benefici” sociali del progetto (la maggiore crescita indotta dalle infrastrutture) nelle loro decisioni di investimento e dunque tralasciano progetti socialmente desiderabili.
La tesi del ministro è che questi sgravi siano “a costo zero” perchè in loro assenza i progetti non si sarebbero realizzati e le entrate sarebbero risultate pari a zero (v.filmato). Ovviamente così non è. Facciamo un semplice esempio. Consideriamo un progetto di investimento che il cui costo (C) è pari a 100. L’investimento rende ogni anno, al netto delle imposte, la somma x, ad es. pari a 3, da oggi alla fine del mondo. Con un tasso di interesse (r) poniamo al 4%, il valore attuale del progetto è pari a x / r = 3/0.04 = 75. Dunque il progetto non è “bancabile” e non verrà intrapreso da un investitore privato perchè il costo, 100, è inferiore al suo valore attuale, 75.
Allora il governo può fare due cose per permettere la realizzazione del progetto: può accollarsi direttamente parte dei costi, per 25, riducendo il costo per il privato a 75. Oppure può accrescere con un’agevolazione fiscale il rendimento netto del progetto, portandolo da 3 a 4 all’anno, in modo da farne aumentare il valore attuale a 4/0.04 = 100. Il costo per lo Stato è identico e pari a 25 in entrambi i casi: lo sgravio costa esattamente come la spesa. La differenza è nel “sentiero temporale” dei saldi di bilancio: il finanziamento produce un evidente peggioramento del bilancio oggi dovuto alla maggiore spesa, mentre il credito di imposta genera piccoli peggioramenti del saldo dovuti alle minori imposte, da domani all’eternità.
Quanto poi al presupposto che l’investimento PPP possa generare “esternalità” positive in grado di accrescere le entrate (e la crescita) è tutto da dimostrare, e qui il compito di valutazione del CIPE e la sua indipendenza dalle “lobbies” dei costruttori sarà veramente decisiva. Sappiamo però che l’esperienza delle PPP, particolarmente in paesi con elevato grado di corruzione è stata molto, MOLTO problematica e ha spesso prodotto oneri enormi per il pubblico (anni fa feci una rassegna della letteratura sul tema quando lavoravo all’ IMF). È un classico esempio di “hold-up”: i costi lievitano e per non rimanere con un “brigde to nowhere” (v.figura) lo stato paga. In ogni caso, per rispondere alla domanda del titolo le infrastrutture sono pagate dai contribuenti.