Mio padre ha sempre avuto un sogno. «Vorrei tanto comprarmi una Fulvia», diceva ogni volta che ne vedeva passare una per strada. Fulvia, per chi non lo ricorda, era un’auto, un bel modello, spigoloso e un po’ altero, come tutte le Lancia di quel periodo. Come mio padre erano in tanti a guardare quelle auto con ammirazione o a far cambiali per comprarsele. In fondo Lancia era, come si direbbe oggi, un love brand, quei marchi che tu scegli prima per il loro valore simbolico e poi per il prodotto in sé.
Lancia Fulvia
Erano gli anni Sessanta e Settanta e le Lancia riuscivano a unire eleganza e sportività. La piccola borghesia italiana, quella sterminata fascia di colletti bianchi delle grandi aziende e della pubblica amministrazione, piccoli negozianti e artigiani, s’immaginava con i guanti di pelle a guidare una Lancia sui tornanti della Costa azzurra e di Montecarlo. Quelle auto infatti correvano i rally e vincevano e anche se scatenavano cavalli. Lo facevano con quell’eleganza che le differenziava dalle dirette concorrenti, quelle Alfa Romeo che facevano tanto Roma città violenta e Milano spara, cinematograficamente parlando, insomma tutte muscoli e cattiveria. E poi c’erano i nomi: Dilambda, Artena, Astura, Augusta, Flaminia, Flavia e Fulvia, tutt’altro che nazional popolari, eleganti, un po’ snob, roba da nobili, insomma.
Una scena di “Roma città violenta” del 1975 di Franco Martinelli
Interni curati, motori ruggenti ma senza diventare invadenti, legno, forme raffinate senza essere spocchiose, le Lancia hanno attraversato decenni, lasciando un’impronta nell’immaginario collettivo italiano, il che non è cosa da poco visto che siamo un popolo di automobilisti e di allenatori della nazionale.
Con la Lancia Stratos, il marchio traghetta gli anni Settanta negli Ottanta. Chi se la dimentica quella barchetta con la corona di fari sul muso che affronta con cattiveria e sicurezza le curve dei rally? Io ne avevo un modellino a casa, che continuavo a prendere in mano, di nascosto, ben dopo che la mia età me lo avrebbe normalmente permesso. Oggi le Stratos sono fra i modelli che i collezionisti ricercano di più e ancor oggi chi non può far altro che dire «ma che bella!».
Lancia Stratos
Poi arrivò la Delta e le mie domeniche di lavoro ai box che vendevano ricambi auto a Porta Portese e le mie scarpinate a vender enciclopedie porta a porta. Mi ci mantenevo agli studi, certo, ma, alla fine, ci comprai anche una macchina, ovviamente una Lancia ma non una qualunque, una delta HF turbo integrale sedici valvole, praticamente un aereo senza ali. Aveva un numero di chilometri enorme, era acciaccatissima, aveva avuto più proprietari lei dei passaggi di mano dell’Alsazia Lorena eppure era bella. Non durò poi così a lungo, esalò l’ultimo respiro su una rampa della Tangenziale di Roma ma fece provare sensazioni bellissime, che ancora oggi, per me che non sono un amante di auto e non so più riconoscerne un modello, sono stampate nella mente.
Lancia Delta HF
Ecco, forse la chiave del successo della Lancia sta proprio nelle sensazioni che un marchio che era quasi più un simbolo, riusciva a trasmettere. Regalava un sogno e una identità a chi l’acquistava. Non eri un automobilista, avevi una Lancia… diciamo un ferrarista in sedicesimi.
Poi le Lancia si sono cominciate a gonfiare, a diventare innaturalmente alte, hanno perso quell’aria un po’ snob per assumerne un’altra, un po’ più normale e da simbolo, da sogno son tornate a essere semplici automobili. L’epilogo, il de profundis, lo ha recitato Marchionne. Il marchio è condannato all’oblio ma forse si tratta semplicemente di un’eutanasia, in fondo era un malato terminale da tempo il vecchio scudo Lancia dell’omonima famiglia torinese.
Lancia Musa del 2009
Ma noi, parafrasando impropriamente Guccini, la vogliamo ricordare così, mentre affronta con la Stratos le curve del rally di Montecarlo in notturna, con tutti i fari accesi e tutta l’eleganza della sua potenza e magari anche, perché no, per aver fatto sognare mio padre.
La Lancia Stratos durante un rally
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