Da ieri pomeriggio è tornato a essere un uomo libero. «Non odio nessuno ma sono certo che prima o poi verrà il momento, e probabilmente non ci sarò più, che la verità sulla vicenda sarà ristabilita e qualcuno allora dovrà pentirsi del male che ha fatto a me e anche alle istituzioni». A 81 anni, con i capelli bianchi al vento, la barba lunga, il viso stanco e un bastone a sorreggerlo, Bruno Contrada, ex numero 3 del Sisde, 10 anni in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, continua a ritenersi vittima di un grosso errore giudiziario, durato 20 lunghi anni.
Napoletano, ma tutta la carriera l’ha svolta a Palermo. Grande viver, «Contrada era un poliziotto all’americana, uno di quelli che non arrestava alla maniera di “Ultimo”. Ad esempio, lui Mutolo lo prese a pistolettate». Un “poliziotto” che a Palermo chiamavano “il dottore”. Un poliziotto che prima diventò capo della Crimnalpol, e poi numero 3 del Sisde, il servizio segreto civile. Eppure la “discussa” vita di Contrada si può dividere in due fasi: prima degli anni Ottanta e dopo gli anni Ottanta.
Dal maggio del 1980 cominciarono ad aleggiare una serie di sospetti nei riguardi del “poliziotto scaltro”, che aveva lavorato a fianco di uomini giusti come Boris Giuliano. Da una parte le diffidenze di Giovanni Falcone, dall’altra le “intemperanze” di giovanissimi poliziotti come Ninni Cassarà e Beppe Montana. La carriera de “il dottore”, come scrisse Attilio Bolzoni su Repubblica, «era ormai un passo indietro. E gli altri – Cassarà, Montana, Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Caponnetto – sempre un passo avanti. Soli, sempre più soli».
Un episodio segnò il confine della sua carriera. Era il maggio del 1980. Contrada era considerato un poliziotto scaltro, capace, un conoscitore del fenomeno mafioso siciliano. Una notte gli telefonò il questore Vincenzo Immordino:«C’è una rivolta all’Ucciardone, lei e tutti gli altri funzionari fatevi trovare fra un’ora alla Caserma Lungaro». Ma non era vero nulla. Immordino bluffava, «non c’era nessuna rivolta in carcere». Il questore voleva depistare Contrada e i suoi collaboratori. Stavano per essere arrestati quarantadue uomini d’onore. La retata fu eterodiretta da funzionaria venuti da Roma e dalla Calabria. Il dado era ormai tratto: il questore Immordino non si fidava più del “dottore”.
Nonostante tutto, quando a Palermo cominciarono a sospettare su Contrada, “il dottore” continuò a fare carriera. In pochi anni diventò il numero 3 del Sisde. Era passato anche dall’Alto Commissariato antimafia, un “centro” che si era contrapposto al pool di Palazzo di Giustizia fin dal principio, «un terminale del vecchio e sbirresco stile di fare investigazioni a Palermo».
Ma alla vigilia di Natale del 1992, nell’anno delle grandi Stragi a Falcone e Borsellino, per Contrada arrivò il diluvio: venne incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa e descritto come un traditore del fronte antimafia. Diversi pentiti lo accusarono di favori agli esattori Salvo, della soffiata per la fuga di Riina, di aver dato la patente a Bontade, il porto d’armi ad un altro boss e così via. E per “il dottore” iniziarono vent’anni di inferno. Nel 1996 il Tribunale di Palermo lo dichiarava colpevole condannandolo a 10 anni di reclusione e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. Nel corso del processo di primo grado venivano sentiti nella qualità di imputati in reati connessi, tra gli altri, Giuseppe Marchese, Rosario Spatola, Salvatore Cancemi, Gaspare Mutolo e Francesco Marino Mannoia.
Nel 2001 arrivò il primo colpo di scena. La Corte di Appello di Palermo, ribaltando l’esito della sentenza di primo grado, assolveva Contrada perché il fatto non sussisteva. A quel punto il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo proponeva ricorso in Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza di appello. Ricorso accolto nel 2002 quando la Corte Cassazione dispose che fosse celebrato un nuovo processo davanti ad una diversa sezione della Corte di Appello di Palermo. Quest’ultima, dopo 31 ore di camera di consiglio confermò la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Palermo nel 1996. E nel 2007 anche la Corte di Cassazione confermò che Contrada era colpevole dei reati “ascrittigli” e il dottore venne rinchiuso nel carcere nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il 15 gennaio del 2012 il Tribunale di Sorveglianza di Palermo decise che avrebbe scontato il resto della sua condanna a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa a casa per il suo grave stato di saluto.
E da ieri Contrada è un uomo libero, e «non porterò, tra non molto tempo, nessuno segreto nella tomba. Né di Stato, né di altro genere. Quello che ho fatto è consacrato in atti di polizia. La parte preponderante della mia esistenza al servizio dello Stato la ripeterei, la rifarei tale e quale. Senza nessun rammarico e pentimento», ha detto ai giornalisti uscendo dal carcere.
Ma nel Paese delle verità nascoste, o delle mezze “verità”, il dubbio resta. Chi è stato Bruno Contrada? L’uomo del grande tradimento, il servitore dello Stato che patteggiava con la mafia, come i grandi accusatore l’hanno voluto dipingere? O sul “caso Contrada” ne sentiremo ancora parlare?
Twitter: @GiuseppeFalci