NEW YORK- Sembra strano, ma il Tea Party, la costola ruspante e ultraconservatrice del partito repubblicano ha una sede nella sofisticata SoHo a Manhattan. Qui, in un loft al secondo di Mott Street un centinaio di persone hanno guardato l’ultimo dibattito televisivo tra il presidente Barack Obama e Mitt Romney centrato sulla politica estera. E benché non adorino Romney – molti di loro alla casa Bianca volevano Ron Paul – alla fine cantavano vittoria.
«Della politica estera non mi frega nulla» commenta a caldo Gracia, 24 anni, ispanica, professione attrice di giorno e cameriera di sera. «A me interessa un’economia con più posti di lavoro, non ci sto ad accontentarmi delle politiche di Obama, con lui per riprenderci ci vorra’ mezzo secolo!». Nei 90 minuti del confronto, Romney ha sostanzialmente rinfacciato a Obama di non essere abbastanza deciso in politica estera, e in particolare di aver indebolito la relazione di ferro con Israele. Per Romney l’influenza della leadership americana in teatri come Siria, Egitto e Libia non ha fatto altro che diminuire negli ultimi quattro anni. E questo, secondo lui, è dovuto principalmente alla lenta ripresa economica di cui accusa Obama.
In questo modo l’ex governatore del Massachusetts nell’ultimo dibattito televisivo ha provato ancora una volta a convincere gli elettori indecisi degli Stati chiave per la vittoria finale che lui, alla luce della sua esperienza di businessman, è l’uomo giusto per creare occupazione. Benché in questo covo newyorchese di repubblicani radicali il tifo fosse tutto per Romney, a guardare il confronto con occhi meno partigiani la performance di Obama eè apparsa più che solida. Forte di una gestione della politica estera senza particolari intoppi (a parte la recente uccisione dell’ambasciatore americano e di altri tre statunitensi in un attacco terroristico in Libia) ha potuto elencare tutti gli obiettivi raggiunti, in primis l’uccisione di Osama bin Laden, responsabile degli attacchi dell’11 settembre 2001. E poi anche il ritiro dall’Iraq e quello fissato per il 2014 dall’Afghanistan con il passaggio delle responsabilità della sicurezza nel Paese all’esercito afghano.
Obama ha avuto gioco facile a ricordare a Romney tutte le giravolte che ha mostrato nei mesi scorsi su temi come l’intervento in Libia, l’operazione che ha portato alla cattura e all’uccisione di Osama bin Laden e la rivoluzione egiziana. Obama ha anche messo in campo quel piglio e quella brillantezza che erano mancati nel primo dibattito a Denver, e si erano invece visti nel confronto all’universita’ di Hofstra cinque giorni fa.
La critica di fondo di Romney all’amministrazione Obama è stata quella già più volte espressa in passato di essere stata troppo passiva nell’intervenire nella Primavera araba, di essersi mostrata troppo remissiva con Russia e Cina. In sostanza Romney accusa il presidente di non credere nella nozione di «eccezionalismo americano», l’idea di un’America guida della comunità globale delle democrazie e di essere andato in giro per il mondo a chiedere scusa per il comporatamento americano del recente passato (vedi guerre in Iraq e Afghanistan). «Noi non ordiniamo alle altre nazioni quello che devono fare» ha detto Romney in un passaggio chiave in cui criticava una vecchia dichiarazione di Obama a una televisione araba. «Noi liberiamo le nazioni dai dittatori».
Per Romney questo dibattito era difficile da gestire e da vincere. Avrebbe potuto sostenere che Obama è ricorso fin troppo ai droni per uccidere terroristi, e questo in molti casi ha causato vittime innocenti. Oppure avrebbe potuto dire che la scadenza fissata per la fine della guerra in Afghanistan è troppo vicina o troppo avanti nel tempo. Ma Romney su questi aspetti è sostanzialmente d’accordo con Obama. I due, sui principali temi di politica estera, sono essenzialmente sulla stessa lunghezza d’onda, per quanto tentino disperatamete di ostentare differenze. Obama ha continuato con metodi molto aggressivi la campagna contro il terrorismo internazionale ereditata da George W. Bush, e Romney ha avvicinato il suo partito alla posizione dei democratici sul fronte del ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan.
Un esempio in questo senso si è avuto quando i candidati hanno discusso la questione del nucleare iraniano. Obama ha detto di aver contribuito a creare le sanzioni più dure della storia e ha lasciato capire che se Romney vuole un atteggiamento più muscolare allora vuole un intervento militare. Romney ha negato questa tesi adombrata dal presidente spiegando che è anche lui a favore di sanzioni – sia pure ancor più dure di quelle che sono state implementate fino a questo momento. L’opzione militare sarebbe, ha detto, solo l’estrema ratio. (Con queste dichiarazioni Romney ha anche cercato di guadagnare terreno sul fronte dell’elettorato femminile fondamentale in Stati contesi come l’Ohio. Secondo vari sondaggi le donne vedono molto negativamente l’idea di un’altra guerra).
«Ci vogliono gli attributi in politica estera» sentenzia Alana, una signora ingioiellata qui al quartier generale del Tea Party a New York mentre tutti escono e gli organizzatori diffondono musica d’opera. «Romney ce li ha, Obama no, il punto è questo». Ma non tutti sono d’accordo. Billy, ispanico e newyorchese doc la vede a modo suo: «Cosa abbiamo visto? Una serie di bugie. Il candidato da votare era Ron Paul, ma l’hanno boicottato». E Genevieve, trentenne franco-americana aggiunge con una smorfia: «Romney non lo voto, sotto sotto vuole fare la guerra all’Iran. Io sono pacifista, serebbe contro i miei principi. Obama non lo voto manco morta. Insomma, il giorno delle elezioni me ne sto a casa a guardare un film».
Solo nei prossimi giorni si vedrà quale peso avrà questo ultimo dibattito. La maggior parte degli osservatori americani, comunque, tende a escludere un impatto decisivo. Queste elezioni si giocano sul terreno dell’economia, non della politica estera. E il gruppo di elettori degli Stati chiave come l’Ohio ancora indecisi su chi votare difficilmente decideranno sulla base delle politiche americane in Medio Oriente.
A 15 giorni dal voto, i due candidati sono appaiati nei sondaggi. Tra gli elettori uomini Romney sembra in vantaggio di dieci punti, tra le donne Obama è avanti di otto (un gap che si è molto ridotto negli ultimi mesi), stando all’ultima rilevazione NBC/Wall Street Journal. Un sodaggio a cura del quotidiano Politico e della George Washington University segnala un Romney in ascesa, considerato più di Obama in grado di migliorare l’economia, e con un bacino di elettori potenziali più orientati ad andare a votare di quelli simpatizzanti per Obama. Insomma, è un testa a testa.
La battaglia si gioca in un limitato gruppo di Stati incerti come il Colorado e la Florida (dove Romney precede); Wisconsin, Iowa e soprattutto Ohio (dove Obama sembra avere un leggero margine positivo). Nessun candidato repubblicano dopo Abraham Lincoln ha vinto le presidenziali senza aggiudicarsi l’Ohio. Questo Stato è da tempo un’ossessione di qualsiasi presidente in carica o aspirante tale. A chi gli chiedeva come si vince una campagna elettorale, Richard Nixon diceva: «Corri per la Casa Bianca come se corressi per diventare governatore dell’Ohio».