Gli anni Ottanta? «Non erano poi così male…». È il leit-motiv della «discesa in campo» di Giulio Tremonti, il creativo Professore prestato alla politica e tre volte ministro dell’Economia nei governi Berlusconi. Il richiamo agli anni Ottanta, di crescita anche impetuosa pur se squilibrata che ci vedeva davanti anche alla Francia e alla Germania, non è del tutto privo di suggestioni per un tecnico erede di una corposa tradizione di stampo socialista.
Ma l’evocazione, in fondo anche strumentale per le battaglie di oggi, è limitata ai più attempati oppure serve anche a ragionare sull’immediato futuro? E quell’epoca, carica di contraddizioni ma anche di opportunità rimaste incompiute, ha insegnamenti da cogliere oppure è liquidabile nel giudizio morale (o forse moralistico) come l’orrida stagione della «Milano da bere»?
Se si ripercorrono quegli anni con il distacco del tempo e con lo sguardo scevro dall’aspra e contingente lotta politica, si può forse comprendere (se non giustificare) il rimpianto: non tanto magari per le singole scelte di allora, quanto piuttosto di un clima, di un’atmosfera generalizzata di fervore e soprattutto di fiducia.
Era la fase in cui il Paese riusciva a uscire dalla cupa spirale degli «anni di Piombo». La sanguinosa e terribile stagione del terrorismo (che aveva provocato in un rosario interminabile di attentati e di uccisioni oltre 400 vittime, tra cui le intelligenze più promettenti e quindi più esposte) aveva fiaccato la sensibilità collettiva stabilendo un «sentire comune» di stanco ripiegamento e di amara rassegnazione. Quando, a fatica, si esaurisce la lotta armata, sia per una più efficace risposta dello Stato sia per un maggioritario «controllo sociale» (dopo le troppe indulgenze intellettuali verso i «compagni che sbagliano»), respira un’aria nuova che coincide con il crollo delle ideologie, sulle quali si era scornata la vociante «meglio gioventù» sessantottina.
Nel clima di liberazione dall’incubo emergeva la voglia diffusa di rimboccarsi le maniche, di esercitare in tutti gli ambiti una creatività a lungo repressa, di riprendere il cammino della crescita economica, tra l’altro con un’inflazione meno devastante di quella a due cifre del periodo precedente. E la spinta al benessere era favorita da un ciclo internazionale particolarmente favorevole, almeno per l’Occidente.
Già, perché arrivavano a incidere pesantemente sulla ripresa le dure riforme imposte non senza contrasti prima dalla Thatcher nel Regno Unito e poi da Reagan negli Usa. Una sferzata al sistema pubblico (con costi sociali non indifferenti) che tuttavia aveva consentito la liberazione di risorse produttive e la molla più efficace alla cultura di intrapresa. A lungo andare gli effetti positivi si erano ripercossi sull’intero sistema economico europeo e avevano consentito all’Ovest con il suo dinamismo e il suo superiore tenore di vita di porre la sfida strategica decisiva al blocco sovietico. L’Est, ossificato nella pesantezza della burocrazia comunista, non riusciva ormai più a reggere la competizione economica e pure quella culturale, scosso com’era stato dalla forza simbolica dell’elezione del Papa polacco, perseguitato a lungo dalla dittatura e ora ascoltato nel suono della sua campana della libertà.
La caduta del Muro di Berlino e l’autoannientamento del comunismo arriveranno solo a fine decennio, ma i segni premonitori c’erano tutti (tranne che per l’ambasciatore italiano a Mosca) . E soprattutto sembrava imminente il senso di una svolta della Storia che anche in Italia si preparava a cambiare il costume e la stessa politica. E pure la sinistra andava a una divisione sempre più esacerbata. Infatti mentre il socialismo segnato da Craxi appariva in pieno nell’onda della storia e della modernità internazionale, la sinistra comunista ne soffriva l’egemonia culturale e, orbata dalla fine improvvisa di Berlinguer e priva ormai di spinta propulsiva, si ripiegava in una incattivita impotenza, accontentandosi da caudataria di attingere a piene mani nel ferreo e perverso sistema consociativo che andava nel disinteresse generale a devastare i conti dello Stato e ad aumentare a dismisura la montagna del debito pubblico.
Ci voleva, allora, la forza di una grande riforma delle istituzioni e dell’intero sistema, nella finestra temporale del momento espansivo. Ma la consapevolezza, peraltro diffusa, e le soluzioni più volte immaginate si fermarono di fronte al convergere di tutti i conservatorismi di qualsiasi provenienza. In particolare dal freno delle onnipotenti burocrazie, dal peso delle corporazioni e dallo stesso distacco dei ceti imprenditoriali (e sindacali), più accomodati nelle forme di capitalismo assistito che disponibili a correre il rischio del libero mercato. E certo non favoriva il conflitto politico, con un clima divisivo dai contorni quasi esistenziali.
Resterà in sostanza la sensazione, per gli anni ’80, di una grande occasione perduta, di una fase incompiuta che accentuerà i problemi invece che risolverli. Già allora c’era una imponente corruzione (con la tassa impropria delle tangenti per i partiti, in cui Craxi e i suoi erano certo i più affamati e i più disinvolti) : ma il lavacro successivo di Mani Pulite, con le gogne mediatiche e la magistratura protagonista, non ha inciso sulla natura criminogena dell’intero sistema, limitandosi a sostituire il ceto politico della Prima Repubblica con un altro ceto politico di statura non eccelsa. Forse non è stato un progresso passare dal Cinghialone e i suoi compagni di merende a un simpatico Belsito Fiorito (con le inziali rigorosamente maiuscole).