L’ideale sarebbe uscire dalla sala dieci minuti prima della fine. I cinema più accorti dovrebbero approntare un segnale luminoso e al momento giusto, zac, azionarlo. Gli spettatori, debitamente informati all’ingresso, prenderebbero le loro cose e tornerebbero a casa con la certezza di aver visto un bel film italiano firmata Paolo Virzì.
“Che hai?” chiede Guido. “È che mi sento in scadenza”, risponde Antonia, sconfortata. È la frase del film, Tutti i santi giorni, che ti sbatte in faccia l’imbarazzo, il dolore e la vergogna di una donna che non riesce ad avere un figlio col proprio uomo. Di una donna, sì. E non perché a lui, timido, impacciato, colto toscano, non freghi niente. Ma perché a lui è sufficiente che ci sia lei, siciliana fumantina, aspirante cantante che lavora in un autonoleggio. Per lei, anzi per sé perché senza di lei non potrebbe vivere, ha scelto di rinunciare a prestigiose cattedre di latino all’estero: fa il portiere di notte in un albergo e al mattino, in un’Acilia così lontana dalle natie campagne toscane, la sveglia declamando il santo del giorno. E fanno l’amore tutti i santi giorni. Senza precauzioni.
Lui è un po’ il sogno di ogni donna, almeno credo, tranne quelle che desiderano il maledetto of course. Il loro amore viene progressivamente turbato dal tarlo del figlio. Ogni ventotto giorni quei maledetti assorbenti riappaiono nel bagno. E intorno a te, improvvisamente, spuntano pance come funghi.
È il dramma di tante coppie. Che Virzì racconta con leggerezza ma senza risparmiare nulla. Quella sensazione di imbarazzo con le domande degli altri, la visita al luminare di turno, l’immersione in esami che trasformano quello che dovrebbe essere un regalo della natura in una forma di lavoro snervante e senza sbocco sicuro. Oltre all’immancabile tentativo di appigliarsi al grottesco rimedio alternativo.
Sullo sfondo ci sono la provincia romana, la precarietà, il tumultuoso rapporto di lei con la sua famiglia, e l’amore incondizionato di lui, Guidopedia come lo chiama Antonia. Virzì gira tutto con garbo e mestiere. Sa far ridere e commuovere, riflettere e coinvolgere. Senza concedere nulla alla battaglia politica sulla fecondazione. Racconta cosa si prova e lo fa benissimo. Aiutato da due attori che funzionano alla perfezione.
Poi, certo, ci avesse risparmiato gli ultimi dieci minuti, la scena sull’autobus, rimando nostalgico a un fuga di altro spessore, quella del Laureato, sarebbe stato meglio. Ma non si può avere tutto dalla vita. Magari il cinema italiano sfornasse tutti i santi giorni film simili.