Diciamolo pure: a tanti di noi, a cui la politica piace, appassiona, mobilita, interessa come esercizio dell’intelletto e dell’azione; a tanti di quelli fatti come noi piaceva Massimo D’Alema. Erano – eravamo – tanti: quelli che, in un punto imprecisato degli anni Novanta, quando nella tarda adolescenza approcciavano la politica, hanno scoperto questo politico antipatico e dotato di battuta tagliente. Quest’uomo che faceva della tattica esasperata un vezzo, che aveva tutto il pedigree certificato della vecchia politica e della mitica (o mitologica) formazione comunista, ma aveva scoperto il mercato, la modernità, perfino la guerra contro un tiranno stalinista come Milosevic. Se ti appassionava la politica, una certa politica che si fa col cervello e coi muscoli, non potevi non confrontarti, con serietà, con la personalità di leader politico di Massimo D’Alema. Cervello e muscoli che, a modo suo, mette anche oggi nello strano addio di oggi: «Io non mi ricandido, salvo che il partito non lo voglia». E vediamo se questo partito, che vive delle proiezioni e scelte di D’Alema da quando si chiamava ancora Pds, avrà il coraggio e la libertà che serve per non chiedergli niente…
Ma torniamo alle proposizioni e suggestioni giovanili da cui partimmo, come chiave per una riflessione che attraversa qualche decennio delle nostre vite. Sono proprio suggestioni giovanili, che rivelano però cosa fu – e cosa avrebbe potuto essere – il dalemismo per la sinistra e la politica italiana. Avrebbe potuto e dovuto essere una cerniera (indispensabile) tra come ci si preparava a fare politica nella prima Repubblica, e come ci si trovava a farla nella seconda. Avrebbe potuto e dovuto essere un modello di politica non fondato su personalità carismatiche ma su competenze e preparazione: ognuno con le proprie idee, certo, sapendo che i socialdemocratici e i liberisti esistono e sono diversi in tutte le parti del mondo occidentale. Avrebbe potuto e dovuto essere un occasione per elaborare in maniera matura la convinzione che la politica professionale è una cosa seria, che fare politica vuol dire lavorare tanto e si può fare a tempo pieno e per tanto tempo.
Ancora, di D’Alema ci piaceva che non demonizzasse Berlusconi, ma ne avesse capito (non nel 1994, a onor del vero) la portata di forza popolare, il significato politico che quel consenso segnava ogni volta al di là del macroscopico conflitto di interessi. Di D’Alema ci piacevano il disincanto e la memoria, non nascosta, di un passato politico che doveva essere però superato (per lui, per Fini, per molti altri) in nome di un’esigenza di futuro. Complice la giovane età, in tanti che oggi negano o ancora sono fedelissimi alla linea, pensammo che di una sinistra moderna in Italia c’era bisogno: e se non fosse stato lui, chi avrebbe potuto farla?
Cosa è stato, invece? A cosa si è ridotta una storia di simboli e parole, di battute e vere proprie idee? Diciamocelo serenamente: di quell’epoca, a noi che calcheremo le strade del paese, a Dio piacendo, per qualche decennio ancora, resta poco. Quel che era da fare, è ancora tutto lì, sul tavolo. Abbiamo visto il liberalismo che serviva a sinistra diventare, ora uno slogan che non serve a nulla e ora, più, spesso, riconfermarsi come l’antico nemico da cui tutti, a sinistra, fuggono spaventati. Non è – badate bene – una questione ideologica novecentesca. Non lo è per tutti, quantomeno. Perché il liberalismo non riguarda solo le riforme di cui il paese continua ad avere disperatamente bisogno ma anche, soprattutto, le forme e le strutture della rappresentanza politica.
E nel conservare la struttura politica di un partito, del suo partito, D’Alema è stato bravissimo. Gli è piaciuto tanto allevare, attorno a sé, una schiera di eletti fedeli, obbedienti e un po’ adulanti. Si è divertito nel vedere schiere di ragazzini (politici, giornalisti, o non pervenuti quanto a professione…) che ogni sei parole ripetevano “diciamo”, perché il “diciamo” era una marchio di fabbrica preciso per ogni dalemiano che si rispetti. È stato geniale (ma sterile) nella capacità di riprodurre il proprio carisma non in base a quanto faceva, non in forza delle spallate che tirava a questo paese immobile (questo dichiarò, dopotutto, quando agli Agnelli preferì i capitani coraggiosi della Telecom…), ma per quel che non faceva.
Pensiamoci. D’Alema, l’intelligentissimo, il governatore attento di tutte le dinamiche e le tattiche, il modernizzatore di una sinistra vecchia, cosa ci lascia? Un centrosinistra che, come strutture e alleanze, è tutto da inventare e che, ancora una volta, aveva fatto tutti i conti bene per prendere il potere salvo quelli – grossi – che non aveva fatto con la realtà. Ci lascia forse un centrosinistra più moderno e più attento ai nuovi bisogni della società? Non proprio, e basta vedere ogni sondaggio attendibile che rileva, ogni volta, quanto a votare il Pd siano sempre di più i vecchi ex democristiani ed ex comunisti e sempre meno giovani, precari, partite iva, ceti emergenti.
Lascia uno spazio politico più moderno e capace di parlare una lingua della competitività, del merito e della concorrenza? No, e basta buttare la parola “Fornero” a una discussione per sentire come schiuma ancora di vecchie – e rispettabili, ma vecchie – parole d’ordine. Lascia un centrosinistra più laico nella valutazione della storia recente, e più lucido rispetto a un’epoca storica non liquidabile con due slogan, come il berlusconismo? Non parliamone neanche. Della sua breve stagione di governo restano delle privatizzazioni fatte in maniera discutibilissima, e mai davvero discussa. Della sua gestione di leader del centrosinistra, invece, l’aver inventato Prodi, per poi accettarne, dopo, un pugnalamento alle spalle e i suoi frutti. Ha affidato il partito prima a Fassino, poi a Bersani, ha subito Veltroni, ha fatto ingoiare a tutti Rutelli ma, alla fine, il berlusconismo è finito per consunzione naturale, non per altrui egemonia.
Restano invece, loro sì, un po’ di dalemiani e qualche riflesso condizionato. Tra i dalemiani, di ieri e di oggi, è bene distinguere attentamente. Ci sono stati (qualcuno in giro ci sarà ancora, ma certo oggi conta di meno) un po’ di affaristi, furbi e aggressivi, di quelli che hanno confuso (o fatto finta di confondere) il rifiuto del moralismo pedante, da comunismi, con l’immoralità diffusa come stile di vita e via per la ricchezza. Di questi c’è poco da dire. Ma ci sono gli altri, quelli che a quella speranza ancestrale di rinnovamento politico, a competenza, a identità socialdemocratica europea credono ancora. Lasciando stare i tic e il culto della personalità che, tra ironia e convinzione, D’Alema ha sempre suscitato, a questi ultimi resta da fare una domanda.
Dite la verità, avreste mai pensato che D’Alema, il vostro leader massimo, l’unico politico che avete mai considerato degno del nome di politico, eccetera eccetera. Avreste mai pensato, insomma, che proprio Massimo D’Alema si trovasse costretto a considerare pubblicamente il proprio addio per non fare brutta figura rispetto a Walter Veltroni? La metafora per un dalemiano è durissima, lo so, ma in un momento cruciale della nostra vita politica, il primo a capire e comunicare un passaggio necessario (quasi banale, non fossimo in Italia) è stato il disprezzatissimo (dai dalemiani) Veltroni. Naturalmente, stiamo alla finestra e aspettiamo, e nessuno escluderebbe a cuor leggere che i due – in un modo o nell’altro – staranno su piazza ancora un pezzo. Ma il passaggio va fotografato adesso, subito: se Veltroni ha capito prima e meglio quale messaggio politico era necessario dare, vuol dire che qualcosa, nel cuore del “dalemismo”, non girava più da un pezzo.