La prima fotografia è datata 22 novembre 1987. A San Siro il Milan gioca contro l’Avellino. In tribuna c’è il nuovo presidente della squadra. Si chiama Silvio Berlusconi. E’ solo un imprenditore rampante, conosciuto per la Fininvest e per gli investimenti immobiliari di Milano 2, che la politica l’ha conosciuta bene ma senza mai aver dato l’idea di volerci entrare. In panchina c’è Arrigo Sacchi. Ma accanto al Cavaliere, sulle poltroncine rosse del primo anello, c’è un politico di estrazione cattolica.
Ha appena fondato il Movimento Popolare, siede al parlamento europeo e si chiama Roberto Formigoni. Arriva da Lecco, ma già si muove veloce tra le maglie del tessuto economico politico milanese, tra i centri di potere che contano, come banche, finanza e quotidiani. Quando segna Roberto Donadoni a metà del secondo tempo, Formigoni si alza in piedi e urla: «Vai Robertino…vai Robertino». Poi batte il cinque a un ragazzino figlio di un giornalista del Corriere della Sera che gli sta di fianco: il Milan di quella stagione vincerà lo scudetto.
La seconda istantanea è quella del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, 1982. A far visita al movimento di Don Luigi Giussani c’è papa Giovanni Paolo II. Tra gli stand di un evento che non ha nulla a che vedere con le grandezze degli ultimi anni, ci sono due giovani democristiani. Sono lo stesso Formigoni e Rocco Buttiglione, ragazzi su cui la Dc ha investito: saranno loro due le promesse della politica lombarda per un partito che negli ’80 a livello di governo ancora spadroneggia grazie a Francesco Cossiga e Giulio Andreotti.
Due foto. Due momenti della vita di un governatore che si appresta ormai a lasciare la presidenza di regione Lombardia. Caso vuole che a tradirlo (parole sue) sia stato un altro milanista, il segretario della Lega Nord Roberto Maroni, che ieri ha sancito la fine di un potere durato più di vent’anni annunciando in consiglio federale di via Bellerio la richiesta di andare al voto in aprile. E la conferma che Formigoni dovrà presto preparare «gli scatoloni», è arrivata pure da Angelino Alfano, il segretario del Pdl che proprio Berlusconi gli preferì alla guida del suo partito.
E’ un finale avvilente quello del Celeste. «E’ un matto, non riusciamo più a controllarlo, non distingue più la realtà dalla verità», dicono gli amici che anche quest’anno al Meeting di Rimini gli avevano preparato la claque durante l’incontro con Oscar Giannino. E’ il triste finale di un politico che oltre a finire indagato, è sempre rimasto imprigionato nella sua torre d’avorio di regione Lombardia. 17 anni sono tanti. Sono troppi. E hanno creato una distanza siderale tra lui e i cittadini, che ora lo spintonano e insultano perfino nella «sua» Lecco, dove vive la sua famiglia. Va detto che dal «ventennio lombardo», di amministrazione «virtuosa» e «eccellente» (suo il copyright), ma anche e soprattutto di scandali, Formigoni ha sempre provato a fuggire.
Lo aveva chiesto più volte a quel Berlusconi con cui condivideva la passione per il Milan. «Dammi un posto da ministro», gli ripeteva a ogni tornata elettorale o ai soliti rimpasti di rito. Ci aveva provato in ogni modo il governatore. Ma niente. La risposta era sempre stata negativa. Ironia della sorte, in parlamento e a palazzo Chigi ci sono comunque finiti due grandi amici del Celeste: Maurizio Lupi e Mariastella Gelmini.
Qualcuno la chiama frustrazione, qualcun altro sindrome di grandezza per aver sempre cercato il massimo, ma aver raggiunto sempre il minimo. Formigoni su questo è stato un maestro in negativo. Anche nel 2008, quando Berlusconi conquistò il governo nazionale insieme con la Lega Nord di Umberto Bossi, «Robertino» aveva bussato alla porta di villa San Martino ad Arcore. Voleva il ministero degli Esteri, una poltrona importante, ma di lustro e peso.
Il Cavaliere gliela negò anche quella volta, offrendogli – si dice -in cambio il dicastero dell’Istruzione. In realtà non era vero. La base di Cl e della Compagnia delle Opere – quel sistema di potere che in questi anni si è abbeverato alle acque del grattacielo Pirelli fondato sull’alleanza con la Lega Nord – aveva bisogno che Formigoni restasse ancora imprigionato nella sua torre d’avorio.
Non solo. Nel 2006, durante una visita a Washington, Berlusconi aveva accettato di portarselo dietro insieme con altri esponenti di Forza Italia. Formigoni gli aveva chiesto in cento modi di incontrare il presidente degli Stati Uniti George W. Bush. La leggenda narra che il Celeste avesse aspettato fuori dalla sala ovale della Casa Bianca diversi minuti di attesa prima di entrare, ma che poi non se ne sarebbe fatto nulla. Berlusconi lo avrebbe anche chiesto a Bush, ma la risposta del repubblicano americano sarebbe stata secca. «Io non parlo con gli amici di Tareq Aziz e del regime di Saddam Hussein».
Leggenda o no, quella della Casa Bianca è l’ennesima dimostrazione della prigione lombarda in cui Robertino è rimasto rinchiuso per più di quindici anni. Perché uno dei primi scandali che fecero tremare Formigoni fu proprio quello di Oil for Food, del petrolio in cambio di risorse nell’Iraq martoriato dalla guerra. Anche allora ci finirono dentro i soliti amici che «possono sbagliare». Un po’ come il faccendiere Pietro Daccò adesso o come Antonio Simone, compagni di viaggio di un politico che in tutti questi anni ha vissuto sempre manie di grandezza di ogni tipo.
Le foto con Arnold Schwarzenegger, anche se prese in una frazione di secondo e mosse. I comunicati stampa chilometrici. Le camicie a fiori. Le magliette di Bob Marley. I grattacieli. I cappelli e le giacche arancioni. Il sito internet. Il Forcafè. Le pubblicità sui social network. Le maratone. La dieta. I concerti rock. I video dove tira di scherma. E’ una lista infinita che ora, a rivederla, mette imbarazzo persino a chi lo ha preso in giro negli ultimi anni.
Quel che più colpisce in queste ore di fine impero è il silenzio dei suoi tanti amici. Mentre lui va a Canale 5 a minacciare di querela un giornalista, mentre il suo addetto ai social network continua a inondare la rete di battute senza senso, una in contrasto con l’altra, non c’è nessuno che lo difende. A parte Ignazio La Russa, che gli è grato per il posto in assessorato dato al fratello Romano, nessuno si spende per lui.
Non dice una parola in pubblico il Cavaliere che lo costrinse a inserire Nicole Minetti nel listino bloccato, scatenando tutto il delirio delle firme false. Non parlano neppure i suoi vecchi amici democristiani. Anzi, Bruno Tabacci lo attacca, mentre Gianfranco Rotondi sostiene di preferirgli «il pm Ilda Boccassini». Non dicono nulla soprattutto i suoi compani di Cl, i memores domini che lo hanno difeso a spada tratta in questi anni. «Ma cosa dovrebbero dire?» spiega un altro ciellino di ferro, ricordando che mentre Simone entrava nel carcere di San Vittore, Formigoni si adagiava su un letto durante la settimana del design, con sorriso stampato in faccia e la solita boria che lo ha contraddistinto in questi anni.
La fine è arrivata. Il voto si avvicina, dopo la legge elettorale e forse quella di bilancio. L’ultima battaglia è quella di salvare la faccia. Di conquistare almeno un posto in parlamento. Le schermaglie degli ultimi giorni – il suo battersi come un leone minacciando di voler correre ancora per la Lombardia – non significano altro che questo: una candidatura per le politiche del 2013. Si racconta che una rassicurazione in merito l’avrebbe già avuta da Alfano, ma il tirare troppo la corda, allungare l’agonia e l’accanimento terapeutico, non potrebbero far altro che peggiorare la situazione.
«Andrà a Montecitorio il Celeste», ci scommettono in tanti. Dopo quasi trent’anni di vita politica c’è chi sostiene che sia arrivata per lui il momento dell’investitura a livello nazionale, che nessuno gli aveva mai dato. Chissà magari, se avesse mollato Berlusconi al suo destino e avesse scelto di giocarsi la sua partita politica da solo, le cose sarebbero andate diversamente. Ma come diceva quel tale «il destino ce lo creiamo noi». E su questo Formigoni avrà molto da riflettere. Non appena avrà superato l’ultimo gradino della sua torre d’avorio, per dedicarsi finalmente, speriamo, a una vita normale.