Inseguendo il sogno del fotovoltaico gli italiani dovranno pagare incentivi fino a 170 miliardi di euro in vent’anni. Adesso i bonus sono in riduzione, ma i postumi dell’ubriacatura da pannello dovranno essere smaltiti in due decadi. Durante la sbornia se ne sono sentite di tutti i colori: «il solare crea occupazione»; «dobbiamo installare il solare per il futuro dell’energia»; «il solare sconfiggerà la lobby del petrolio». A parte il fatto che il solare non sconfigge la lobby del petrolio, perché con il petrolio si produce ben poca elettricità (preferiamo generarla con il gas), anche sui temi dell’«occupazione» ci sarebbe stato da questionare. Ai tempi d’oro, i bonus per il fotovoltaico arrivavano a remunerare i progetti anche al 14-15% netto l’anno, che con un po’ di leva poteva salire fino al 25% e oltre. Se lo stato impone che un bene (in questo caso l’elettricità da fonte rinnovabile) venga remunerato per legge a questi livelli, ci vuol ben poco a creare occupazione – a danno di tutti coloro che, tale occupazione, devono pagarla.
Chi criticava il fotovoltaico invitando alla cautela veniva ricoperto d’insulti. Si doveva trattare necessariamente di un qualche scribacchino al soldo degli interessi petroliferi organizzati (sempre loro!). A poco valeva controbattere che il fotovoltaico è una tecnologia molto cara, e che installare troppo e tutto insieme poteva avere impatti deleteri e costosissimi sul sistema elettrico nazionale. A poco valeva ricordare qualche dato strano: al 2010, in Italia un gigawattora prodotto da solare costava agli italiani 500.000 euro d’incentivi, mentre in Germania un gigawattora solare costava 400.000 euro. Era strano: un impianto installato in Italia produce di più rispetto allo stesso installato sotto i grigi cieli della Ruhr, per cui gli incentivi in Italia dovrebbero essere più bassi, a pari di energia prodotta. Ma non era così. Era l’opposto.
La sbornia fotovoltaica ha fatto malissimo a tutti. Ha fatto male agli italiani, perché dovranno pagare tasse per qualcosa i cui benefici sono assai limitati. Ha fatto male agli operatori seri, che hanno dovuto soffrire l’invasione di lanzichenecchi del pannello: del resto, è facile rimanere nel «bisnèss» se il margine d’errore poteva rimanere entro il 25% di rendita. Ha fatto male a migliaia di famiglie con persone impegnate nel settore, costrette alla disoccupazione non appena la flebo degli incentivi è stata chiusa. Ha fatto male ai dotti biliari dei pochi che hanno osato alzare un dito contro gli interessi fotovoltaici organizzati, tanto per far presente che era il caso di darsi una calmata.
Ma non si cada adesso nella tentazione di vedere in questa storia «il solito vizio italiano» di agire prima di pensare. La demagogia rinnovabile – e per demagogia non intendiamo il rinnovabile in sé, ma la mancanza di pianificazione – ha coinvolto anche Spagna, Germania, Francia. I tedeschi hanno appreso recentemente che una famiglia di tre persone nel 2012 pagherà 149 euro di incentivi rinnovabili, e 219 euro l’anno prossimo (Scheisse!). Si propone adesso, come minimo, di sospendere il pagamento dell’Iva per i primi 500 kWh di consumo. La Spagna ha introdotto da tempo una legge retroattiva per la riduzione degli incentivi sugli impianti già installati. La Francia è arrivata al cuore del problema: per un periodo ha sospeso il piano solare.
«Soldi regalati ai cinesi», era il commento: dipendeva dal fatto che i cinesi detengono quasi la metà del mercato mondiale dei pannelli, e si guardano bene dall’installarli in casa – l’avvitamento domestico riguarda una porzione assai ridotta della produzione nazionale. Un operatore del settore intervistato dal New York Times ha sostenuto che «la Cina introduce piani quinquennali e poi impiega tutte le forme possibili di sussidi locali e nazionali e altro sostegno governativo per trasferire in fretta lavoro, catene produttive, proprietà intellettuale e benessere […] l’abilità cinese di entrare e occupare un’industria è unica». A questo punto, si comprendono i sospetti di «dumping» nei confronti della Cina. Gli Stati Uniti stanno imponendo dazi doganali fino al 33 per cento. Il maggior mercato per la Cina è l’Ue, che l’anno scorso ha importato 21 miliardi di euro di pannelli e componenti dal celeste impero (80% del mercato!) – ma anche qui la Commissione Europea sta avviando un’investigazione anti-dumping.
È il ritorno della razionalità nel mondo fotovoltaico? Solo in parte. C’è il sospetto che tanta opposizione alla Cina, tardiva e repentina, non dipenda da motivi politici. Si sapeva da anni che i cinesi esportavano a poco e installavano il minimo in casa. Il problema è che, tra piani quinquennali e incentivi statali, i prezzi dei pannelli sono crollati. Il costo è circa la metà rispetto a cinque anni fa. Ciò dipende anche dal calo della domanda europea. Si è trattato di speculazione statale, perlopiù doppia: i pannelli cinesi erano incentivati in patria cinese e in ex-patria europea. Non è stato uno sviluppo organico del settore, con una diminuzione progressiva del prezzo e un piano d’installazione coerente. È una peristalsi di incentivi, iper-produzione, installazione, crisi e discese ardite, e poi risalite, tanto per soddisfare i seguaci della «shock economy». È un meccanismo economico che brucia le risorse per lo sviluppo e le impiega per arricchire chi specula, a spese di chi paga le bollette.
Del resto, appena il 2% dell’utile delle aziende fotovoltaiche è investito in ricerca e sviluppo. La corazzata cinese ha distrutto un’industria, perché adesso ci troviamo con un panorama di aziende in rovina. Un report Gtm calcola che nei prossimi tre anni scompariranno 180 produttori di pannelli, di cui 88 localizzati in Paesi diventati troppo cari per la produzione (guarda un po’: c’è anche l’Europa). Sono iniziati i licenziamenti: in Germania, recentemente è stato il turno di SMA Solar e Sovello.
C’è da sperare che per la sopravvivenza del settore, almeno in Italia, non si decida un altro giro di balletto attorno agli incentivi. Speriamo che il legislatore voglia concedere, almeno in questo caso, un minimo di chiarezza agli operatori, stabilendo regole condivise e prevedibili. In Germania, dove i problemi sono analoghi, il ministro dell’Ambiente Altmaier affronterà un’eventuale riforma della legge incentivi solo nel 2014, per dare tranquillità alle aziende. Da noi sarebbe opportuno concentrarsi sull’organizzazione del settore per aumentare le efficienze di sistema, contenendo così i costi. Se c’è stata speculazione, non possiamo staccare la spina all’improvviso.