Gomorra pontina, le mani dei Casalesi sul Lazio

Gomorra pontina, le mani dei Casalesi sul Lazio

Fra il 2002 e il 2011 il clan dei Casalesi è riuscito a imporre la propria egemonia su buona parte del Lazio meridionale. Affermando le sue “leggi” con le armi della sopraffazione, del terrore, della morte, ha potuto imporre una morsa ferrea su attività commerciali e imprenditoriali rilevanti della provincia di Latina. Ponendo le basi propizie per tentare una penetrazione capillare nel litorale e quindi nell’hinterland della Capitale. È una realtà raggelante e inquietante quella emersa nel corso della lunghissima requisitoria svolta dai magistrati dell’accusa nel processo in corso nel Tribunale penale di Roma. Processo che per la prima volta vede alla sbarra noti esponenti dello storico clan camorristico proprio in relazione al tentativo di affermare il loro predominio al di là dei confini della Campania. Processo che è giunto al momento della verità, soprattutto alla luce della ricostruzione dettagliata, puntuale e rigorosa compiuta dalle tre rappresentanti della Procura guidate da Maria Monteleone.

Fulcro dell’intera e complessa vicenda giudiziaria è l’imputazione scolpita nel celebre articolo 416 bis del Codice penale, quella relativa all’associazione a delinquere di stampo mafioso, in tal caso camorristico. Reato principale attorno a cui ruota un impressionante coacervo di crimini “satellite”, che abbracciano l’estorsione, le truffe, l’usura, le minacce, le lesioni, i tentati omicidi, gli incendi e le devastazioni di locali e negozi, il traffico di stupefacenti e la detenzione di armi da guerra. Tasselli di un mosaico di terrore e orrore che oltrepassa qualunque logica e umanità, anche quella criminale.

Protagonisti indiscussi del processo sono due persone. Pasquale Noviello, figura di spicco di una famiglia malavitosa compenetrata con i Casalesi e proveniente dalla località di Villa di Briano, confinante con Casal di Principe, roccaforte dei capi camorristi della provincia di Caserta. E sua moglie Maria Rosaria Schiavone, la nipote del boss Francesco Schiavone, il famigerato “Sandokan” al centro del romanzo Gomorra di Roberto Saviano e fino a poco tempo fa icona dell’organizzazione criminale. Grazie al supporto decisivo di Mario Noviello, padre di Pasquale e punto di riferimento e di snodo di tutti gli affari della banda, i due malavitosi hanno costituito, promosso, organizzato e diretto un’associazione direttamente legata ai Casalesi, beneficiando dell’invio di uomini e mezzi e contribuendo a incrementare le casse del clan originario con una buona parte dei profitti di svariate attività illegali.

Forti della coesione e dell’omertà interna derivanti dal vincolo associativo, e di una capacità d’intimidazione messa in atto con ferocia scientifica e metodica, i tre criminali hanno perseguito il progetto di realizzare un controllo spietato sul territorio pontino e mettere le mani sulla vita economica e sui traffici illeciti di un’area cruciale della seconda regione italiana. Nel quadrilatero compreso tra Latina, Aprilia, Nettuno e Anzio, si è consumato per quasi un decennio un campionario dei più gravi delitti contro la persona, il patrimonio, la sicurezza e l’incolumità della popolazione locale.

Attualmente in carcere per aver subito ripetute condanne concernenti reati associativi di stampo camorristico, i tre ideatori del tentativo di trapiantare la tirannia dei Casalesi oltre confine hanno potuto contare sull’adesione e sulla militanza attiva e consapevole di un gruppo agguerrito di uomini, tutti appartenenti a pieno titolo all’organizzazione. Con un’unica differenza. Tre di loro, Francesco Gara, Agostino Ravese e Dario Flamini, sono coimputati nel procedimento in corso a Roma per avere fedelmente eseguito gli ordini dei due capi minacciando ed estorcendo denaro a commercianti e alle loro famiglie, bruciando negozi e centri di rivendita, danneggiando abitazioni private, e nel caso di Flamini, rifornendo il sodalizio criminale di armi e munizioni potenti e sofisticate acquistate nella Repubblica di San Marino.

Altri tre, invece, hanno preferito separare la propria posizione giudiziaria e chiedere il rito abbreviato, nel quale è arrivata per tutti la condanna. Si tratta di Enzo Buono, detentore dell’arsenale militare del clan, intestatario fittizio di beni acquisiti da Noviello e Schiavone grazie alle attività criminali, e responsabile di traffico di droga oltre che di lesioni e tentati omicidi di imprenditori legati a gruppi rivali o riluttanti a pagare il pizzo. E di Michele De Leo e Luigi Cotogno, artefici delle riscossioni periodiche in denaro e in natura verso i commercianti indicati dai boss, autori di feroci e ripetute aggressioni punitive o intimidatorie e di incendi ai danni dei titolari dei locali più riottosi al pagamento del tributo malavitoso.

È proprio dalle rivelazioni delle più diverse imprese di sangue raccontate ai magistrati inquirenti da Buono, De Leo e Cotogno, oggi divenuti collaboratori di giustizia, che le dinamiche e i contorni di questa  realtà criminale sono state ricostruite e delineate in forma rigorosa. Un panorama dominato dalla legge del terrore assoluto, al punto che molti esercenti, per la paura di feroci ritorsioni contro se stessi e le proprie famiglie, si rifiutarono di presentare una regolare denuncia alle forze dell’ordine sulle sopraffazioni e le violenze subite.

Punto di partenza del lavoro dei pubblici ministeri è stata l’indagine sul tentato assassinio del ristoratore di Cisterna Francesco Cascone, miracolosamente sfuggito a un agguato a colpi di kalashnikov a fine marzo 2008. Spari provenienti da un’arma appartenente ai componenti del clan camorristico, fortemente intenzionati a eliminare un insidioso ostacolo per le loro mire espansionistiche. Al titolare del ristorante, bersaglio di un vero e proprio atto di guerra, Pasquale Noviello si era qualificato come “reggente della famiglia Schiavone nell’area di Latina”. E secondo le testimonianze di numerosi imprenditori vittime della prevaricazione del clan, i due capi si presentavano puntualmente come “gli unici rappresentanti in loco e nell’intera regione del sodalizio di Casal di Principe”. Nell’intera regione, dunque. È in poche, scarne ed eloquenti parole che si può cogliere tutta la portata del progetto criminale di conquista del Lazio da parte dei boss della camorra. La cui penetrazione nel territorio di Nettuno e Anzio, quindi, costituiva nelle loro aspirazioni l’avamposto ideale per proiettarsi verso il cuore commerciale e turistico della Capitale, per avanzare verso il controllo diretto di ristoranti, locali e pub della vita notturna romana. Un solo paragone plausibile viene alla mente di chi osserva e analizza l’universo ricostruito dai pm: la penetrazione progressiva e capillare realizzata dalla ‘ndrangheta nel tessuto produttivo della Lombardia e nei gangli delle amministrazioni pubbliche del Nord-Ovest.

Ma l’infiltrazione dei Casalesi nel Lazio, a differenza delle strategie sottili e raffinate messe in atto dai capi della criminalità originaria della Calabria, si caratterizza per un evidente tasso di ferocia e brutalità, sfacciate e primitive, come spicca da una serie di episodi che gettano piena luce su una mentalità e su un metodo di azione degni della Chicago anni Venti. Il clan Noviello-Schiavone non ebbe scrupoli a devastare le vetrine del centro vendita di motocicli di un imprenditore che non era disposto ad accettare il pizzo. Non nutrì dubbi nell’incendiare il negozio di chi era abituato alla “protezione” di un piccolo malavitoso locale. Non venne colto da incertezze quando, brandendo una bottiglia di spumante, distrusse le macchine del video-poker del proprietario di un locale cui voleva imporre la propria egemonia nel gioco d’azzardo. È sufficiente ascoltare le frasi pronunciate dal capo dell’organizzazione per capire fino a che punto la sua visione della dinamica imprenditoriale pervertisse e stravolgesse le regole e la logica del mercato. Per affermare la propria “superiorità” su avversari e concorrenti, Pasquale Noviello non esitava a “dare fuoco alle loro abitazioni e a seppellirli sotto terra”. Minacce che in alcuni casi, non presenti tra i capi di accusa del processo in esame ma parte essenziale di altre vicende per cui il boss deve scontare decine di anni di prigione, trovarono uno sbocco concreto. A un piccolo fornitore che pretendeva di essere pagato per il suo lavoro, il boss giunse a dire in maniera sprezzante che “non sarebbe arrivato a Natale”. E di lì a poco l’imprenditore venne trovato ucciso.

Il fatto che numerose persone chiamate da Flamini a effettuare prestazioni professionali negli appartamenti del boss non venissero retribuite rappresenta un’ulteriore ed evidente prova del potere intimidatorio esercitato dal sodalizio camorristico. Uno sfregio di natura essenzialmente psicologica, a conferma di un predominio di stampo feudale e assoluto sulla dignità delle persone sottoposte alla “giurisdizione” del clan. Nella ferocia delle sue imprese criminali come quelle legate all’usura, si stagliava per assenza di scrupoli e crudeltà la figura di Maria Rosaria Schiavone. Spietatezza tale che perfino suo zio Nicola, il figlio di “Sandokan”, referente centrale per il riciclaggio dei proventi dei traffici illeciti e per “risolvere i problemi” emersi nel territorio pontino, l’aveva rimproverata “per l’estrema violenza con cui trattava le proprie vittime”. Al boss di Casal di Principe, destinatario del ricavato delle estorsioni destinate al sostegno delle famiglie dei camorristi detenuti, interessava solo che il denaro fosse versato ogni mese. Mentre i metodi disumani messi in atto dai coniugi attivi nel Lazio meridionale rischiavano di essere “controproducenti” e di spingere i commercianti vessati a trovare il coraggio di rivolgersi alle istituzioni.

Gravità e numero dei reati ascritti a carico dei “Casalesi di Latina” rendono doverosa per la pubblica accusa la richiesta delle pene più severe per i loro capi: 22 anni di carcere per la Schiavone e 18 anni per Noviello. Nei confronti di Mario Noviello la pena invocata ammonta a 12 anni e 6 mesi, mentre per Gara e Ravese ne vengono chiesti 13. Per tutti gli imputati, infine, i pm domandano al Tribunale il sequestro e la confisca di beni immobili, proprietà e conti correnti ad essi intestati o riconducibili. Prima che il collegio dei tre giudici togati si ritiri in camera di consiglio per emettere la sentenza, la parola passerà agli avvocati difensori dei boss e affiliati. Ora più che mai i legali potranno avvertire tutte le contraddizioni e le difficoltà di una professione nevralgica in uno Stato di diritto. Smantellare le tesi accusatorie e sfidare la mole imponente di documenti messa in piedi dalla Procura appare davvero un’impresa impossibile.