La riduzione del numero dei parlamentari. Chi se la ricorda? Fino a pochi mesi fa era uno slogan di successo. Alle Camere ne parlavano un po’ tutti. Tagliare il numero di deputati e senatori era l’obiettivo minimo che i partiti si erano dati durante la parentesi del governo tecnico. Roba da metterci la mano sul fuoco. Più che una promessa, una certezza.
E invece la sforbiciata è passata silenziosamente in secondo piano, fino a scomparire del tutto. Mentre sulle prime pagine dei giornali imperversa la rottamazione di Veltroni e D’Alema, la riduzione del parlamentari è passata a miglior vita lontano da sguardi indiscreti. È successo poche settimane fa, nella commissione Affari costituzionali della Camera. A parlarne oggi, la promessa diminuzione delle poltrone sembra una storia lontana. Eppure la vicenda è piuttosto recente. Il disegno di legge costituzionale che ha introdotto il progetto è stato approvato in Senato solo a fine luglio. Per carità, niente di drastico. Più che un taglio, una spuntatina. 508 deputati al posto di 630. 250 senatori invece che 315. Poco, insomma. Ma pur sempre meglio di niente.
I primi dubbi tra gli addetti ai lavori risalgono proprio a quel periodo. «La riduzione dei parlamentari? Vedrete che non si farà mai». Qualcuno accusava il centrodestra, colpevole di aver forzato la mano introducendo unilateralmente il semipresidenzialismo e il Senato Federale (con tanti saluti a chi chiedeva di revisionare la Costituzione con l’accordo di tutti i partiti). Qualcun altro dava la colpa al Pd. Poco propenso ad accelerare i tempi, pur di insabbiare il progetto berlusconiano. Compito non troppo difficile a pochi mesi dalla fine della legislatura, dato il complesso iter previsto per le riforme costituzionali.
E dire che qualcuno nel Partito democratico ci aveva anche provato. Durante l’esame a Palazzo Madama era stata lanciata l’idea di stralciare gli articoli sulla riduzione dei parlamentari. E portare avanti solo quelli. Un modo come un altro per garantire l’approvazione di un aspetto della riforma forse non essenziale, ma largamente atteso dal Paese. Giusto per salvare la faccia. Niente da fare: quel progetto non è mai stato preso in considerazione troppo seriamente. E così il taglio è stato affossato insieme all’intera riforma. Il colpo di grazia è arrivato nel passaggio tra Senato e Camera. Più precisamente nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio, durante le ultime settimane.
Un’agonia neppure troppo lunga. Il giorno dopo l’approvazione del Senato – lo scorso 25 luglio – il provvedimento viene celermente trasmesso all’altro ramo del Parlamento. Nemmeno una settimana e il testo è assegnato alla commissione Affari costituzionali. I relatori sono Gianclaudio Bressa per il Pd e Giuseppe Calderisi per il Pdl. Le settimane a disposizione sono poche, bisogna fare in fretta. La corsa contro il tempo inizia già il 7 agosto, data della prima seduta.
Sulla riduzione del numero dei parlamentari incombe però l’estate. Ad agosto i lavori si fermano. Al ritorno dalle vacanze, il 6 settembre, la commissione torna a esaminare in sede referente il provvedimento. Per sperare nell’approvazione si deve accelerare. Votare in tempi record. Eppure in molti hanno già perso la speranza. È l’11 settembre quando il deputato Udc Pierluigi Mantini sfoga la sua frustrazione. Stando al resoconto di quella seduta, il centrista ammonisce realisticamente i colleghi, sottolineando «il carattere surreale di una discussione su una riforma costituzionale per la quale non sussistono più i tempi in questa fase conclusiva di legislatura».
Insomma, alla Camera si sta discutendo di una riforma già morta. «La discussione – spiega ai colleghi pochi giorni dopo Mario Tassone, altro uomo di Casini – rappresenta al massimo un messaggio per i posteri». Ha ragione. In tutto il mese di settembre il provvedimento viene portato all’attenzione della commissione una decina di volte. In due occasioni l’esame è rimandato a data da destinarsi per l’assenza dei relatori. Altre due volte perché nessun deputato vuole intervenire. L’ultimo ad arrendersi è Ignazio La Russa. Il 26 settembre l’ex ministro «dichiara che quando il provvedimento in esame è stato trasmesso dal Senato, si aspettava che la commissione Affari costituzionali lo esaminasse con grande celerità, per sottoporlo infine all’Assemblea, il che non è invece avvenuto». Il resoconto sommario pubblicato negli atti parlamentari prosegue. «Personalmente (La Russa, ndr) ritiene che questa sia una riforma importante, nella quale ha creduto e ancora crede moltissimo. Una riforma che deve essere realizzata e che può esserlo ancora in questa legislatura».
Il sogno dell’ex ministro si interrompe qualche ora più tardi. La conferenza dei capigruppo chiamata a scrivere il programma dei lavori dell’Assemblea si dimentica della riforma. Nel trimestre ottobre-dicembre non c’è tempo per esaminare il provvedimento. È la pietra tombale sulla riduzione il numero dei parlamentari (e sui connessi propositi di introdurre il semipresidenzialismo e il Senato federale). Il 2 ottobre scorso il disegno di legge arriva in commissione Affari costituzionali per l’ultima volta. Quando il presidente Donato Bruno annuncia il provvedimento, lo stenografo della Camera fotografa il decesso della riforma: «Nessuno chiedendo di intervenire, rinvia il seguito dell’esame ad altra seduta».