Il Nobel alla Ue, ma il frutto della pace se lo prende la Germania

Il Nobel alla Ue, ma il frutto della pace se lo prende la Germania

L’Unione europea ha vinto il premio Nobel per la pace per aver «contribuito per più di sessant’anni alla pace e alla riconciliazione, alla democrazia e ai diritti umani». È un riconoscimento quantomeno singolare, visto che in Europa si è appena combattuta una decennale, ferocissima guerra valutaria, che ha un paese vincitore, la Germania,  e una serie di sconfitti, tessere di un domino che è partito dalla Grecia, e potrebbe arrivare fino alla Francia.

La Germania ha vinto: è l’unica grande economia in crescita, è l’unica in cui la disoccupazione giovanile non è un vero problema, è l’unica che abbia raggiunto il pareggio di bilancio. È l’unica, poi, che riesce ad approfittare della moneta unica per sostenere le esportazioni. È l’unica che possa contare su una presenza stabile in Asia. Berlino ha dimostrato di essere l’unico, vero interlocutore in cui credono la Cina, gli Stati Uniti, il Fondo monetario internazionale. Il discorso politico tedesco, un tempo nascosto dietro una corte oscura di noia e bisticci borghesi di estremo disinteresse per gli altri paesi, è adesso al centro delle attenzioni della periferia del continente. Un possibile avvicendamento tra Cdu al governo e Sps, nelle elezioni del prossimo anno, è già tema di discussione in Italia e Spagna.

La Germania ha meritato di vincere. L’euro era nato come progetto franco-italiano per indebolire la centralità del marco (Giulio Sapelli docet – si veda l’illuminante “L’inverno di Monti”, editore Guerini e Associati, e-book goWare). Alle mosse dei latini, i tedeschi hanno risposto con una serie di riforme, quelle degli anni Duemila, che hanno bloccato il costo del lavoro, e hanno aumentato la produttività del sistema industriale nazionale. Le riforme sono state portate avanti dai socialdemocratici: nonostante il partito avesse sempre avuto una vocazione fortemente europeista, ha operato a beneficio e interesse esclusivo della Germania. È stato ridotto lo stato sociale in patria, nella convinzione che maggiori entrate statali sarebbero giunte con la crescita economica – magari a spese del Sud Europa. I socialdemocratici hanno fatto pagare a Italia, Grecia, Spagna e Francia il conto delle riforme.

Adesso l’ordine di potere all’interno dell’area euro è stabilito. Se la Germania ha vinto la guerra, ancor più difficile sarà costruire la pace. Sapelli in un passaggio del suo libro sostiene che «la Germania del Novecento ha sempre perso tutte le guerre e ha sempre vinto tutte le paci, grazie alla sua eccezionale alta produttività del lavoro, frutto del disciplinamento sociale che è proprio della sua cultura antropologica». La novità della Germania del ventunesimo secolo è che, dopo aver perso la Seconda Guerra mondiale, i tedeschi non solo “hanno vinto la pace”, ma sono stati in grado di interpretare la nuova pace con la logica del conflitto, trasformandola in guerra. Hanno vinto la loro prima guerra dell’epoca contemporanea.

La “Guerra dell’euro” è stata cioè il proseguimento dei grandi confronti borghesi europei nati con la seconda rivoluzione industriale, nei primi anni del Novecento. Il petrolio come motore delle identità nazionali è stato sostituito dalla finanza. Non ci sono stati gli odi, le morti e le distruzioni dei conflitti meccanici, ma gli scopi di prevalenza borghese hanno continuato a dominare il confronto. L’aggressività della Germania di oggi non è figlia del nazismo, ma ha le sue radici in quel contesto industriale che ha sostenuto le camicie brune delle origini – Hitler è stato un incontrollabile incidente, una tragedia che, alla fine, non ha fatto il bene dell’industria. Ma adesso, se Volkswagen esporta e Fiat muore, ciò dipende anche dalla vittoria nel confronto valutario. Se le élite industriali e finanziari hanno una fortissima voce in capitolo nei governi delle economie europee, o sono i governi sono emanazione stessa di queste élite, è perché si stanno rinegoziando gli equilibri industriali continentali: è una sorta di “governo collettivo” che implica una temporanea sospensione dei normali processi democratici.

Non che la guerra sia stata colpa dei tedeschi: il progetto della Francia e dell’Inghilterra nei confronti della Germania è sempre stato orientato all’annullamento politico. La politica estera tedesca – fin dai tempi di Bismarck – è sempre stata basata sul concetto del confronto: alle alleanze, i tedeschi preferiscono esprimere una personalità autonoma, isolazionista e antitetica rispetto al resto. Questo rappresenta anche il limite della Germania, per il ruolo che può giocare in Europa. Si parla di leadership tedesca. Il grande interrogativo, adesso, è se una Germania vincitrice è in grado di continuare a esprimere una personalità responsabile, anche in assenza di antitesi.

Quella per l’euro non è la prima “guerra valutaria” della storia: gli episodi citati di Francia-Germania negli anni Venti e della Russia post-1991 sono stati, in parte, confronti giocati sul piano della moneta. Nel primo caso, la Francia volle spingere la Germania all’iper-inflazione; nel secondo caso, era interesse americano che il rublo fosse debole e debolissimo. In entrambi i casi, la “pace” è stata persa perché i paesi vincitori non sono stati in grado di assegnare un ruolo geopolitico agli sconfitto. La Francia del 1918 pensava ritrovarsi al Congresso di Vienna di un secolo prima, e che la pace potesse essere raggiunta tramite il contenimento tedesco. Gli Usa trionfatori sulla Russia nel 1991 ritenevano di essere nel 1918, convinti che bastasse ricacciare i russi dietro ai loro confini per tenerli a bada.

La nuova pace tedesca non potrà essere raggiunta solo con una riforma valutaria, e neanche con riforme strutturali autonome all’interno dei singoli paesi. La costruzione di un “ordine neo-imperiale” necessità di investimenti finanziari e politici, che necessariamente devono passare attraverso una riforma fiscale a guida tedesca, insieme a impegni nell’approccio industriale-economico. Se negli anni passati la Germania ha sostituito i fornitori italiani e francesi per favorire quelli di paesi extra-Ue, non lo ha fatto solo per interesse economico contingente: ha spinto ai limiti le debolezze strutturali dell’unione monetaria, ricavando il vantaggio che ne avrebbe decretato il successo. Adesso è tempo di pace, e di responsabilità – che significherà sacrifici anche da parte dei tedeschi.

Il premio Nobel per la pace all’UE, in realtà, è stato assegnato alla Germania, perché si tratta di un “premio alle intenzioni”. Si spera, cioè, che Berlino sia in grado di costruire la pace, dopo aver vinto la prima guerra contemporanea della sua storia. Non deve commettere l’errore di altri paesi, che si sono trovati nella sua stessa posizione dopo conflitti vittoriosi. Le imposizioni franco-inglesi sulla Germania del primo dopoguerra hanno precipitato gli eventi verso il secondo conflitto mondiale. Il desiderio americano di annullare la Russia dopo il 1991 ha portato all’emersione del nazionalismo petrolifero di Putin. La Germania non può illudersi che un equilibrio basato sulla predazione delle identità economiche degli altri paesi sia qualcosa di sostenibile. Per carità, però, che non si tiri fuori ancora una volta la storia maledetta del “nuovo piano Marhsall”. È una scemenza da speechwriter annoiato, un concetto ridicolo da discorsetto da conferenza liceale, un titoletto per il solito paper da qualche think-tank di Bruxelles.

La pace europea del Ventunesimo secolo dovrà essere costruita in maniera del tutto diversa dalla pace del Novecento. Allora, si era in presenza di una forza imperialista e aggressiva – l’Urss di Stalin – che era anche una forte matrice ideologica. Gli Stati Uniti rispondevano con altrettanta creatività ideologica, e da questo confronto nascevano le personalità politiche. Il piano Marshall era basato su concetti di schieramento e difesa economica, che traevano spunto inscindibilmente dalla contrapposizione tra ideologie.

Oggi siamo in assenza di blocchi imperiali e schieramenti egemoni. Siamo in una situazione di “Nuovo Medioevo”, in cui la logica locale e un sistema a rete sostituisce l’ordine imperiale. Prevalgono le medie potenze regionali. La Germania nei prossimi due decenni dovrà dimostrare di essere in grado di produrre ideologia, e di avere sufficiente intelligenza politica da organizzare il continente.

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