BRUXELLES – La via è quella antica, intrapresa nel lontano 1936 dagli Stati Uniti con il Glass Steagall Act, e poi abbandonata con l’esplosione della Reaganomics negli anni Ottanta: separare le attività di deposito e banca commerciale (risparmi e finanziamenti a famiglie e imprese) da quelle di trading che mirano ai classici capital gain, con avventure rischiose nel mercato azionario, sui derivati e sulla finanza strutturata. Nel bel mezzo della crisi dell’eurozona, la riscopre un gruppo di alto livello di 11 persone guidato dal presidente della banca centrale finlandese, Erkii Liikanen. Per la cronaca, nel gruppo c’è anche un italiano, Marco Mazzucchelli, già vice Ceo della Royal Bank of Scotland, con un passato in Monte Paschi, Sanpaolo Imi, Crédit Suisse e Morgan Stanley. E anche un altro alto calibro come Hugo Bänzinger fino al maggio 2012 Chief risk officer della Deutsche Bank.
Dal novembre 2011, quando Liikanen è stato incaricato dal commissario Ue al Mercato Interno Michel Barnier di studiare una ristrutturazione del comparto bancario per evitare nuove disastri, gli 11 hanno lavorato sodo fino a produrre un corposo rapporto di 153 pagine. Non senza divisioni interne sulle “ricette” da seguire. La più vistosa riguarda l’aspetto che già citavamo: appunto la separazione tra le attività di deposito e quelle trading (in Italia c’era una legge del 1936, abbandonata nel 1993, che imponeva la separazione fra credito ordinario e istituti di credito speciale). Raccontano che non tutti nel gruppo erano convinti che fosse necessaria una separazione delle attività, tra gli 11 c’era chi pensava che bastassero regole più severe di capitalizzazione.
Alla fine è passata una linea di “compromesso”: niente smembramento dei colossi, ma separazione interna tra le attività sotto lo stesso tetto. Praticamente, si dovrebbe andare verso la creazione una società separata e capitalizzata autonomamente, per le attività “rischiose” di trading, con forti limitazioni del cosiddetto “proprietary trading” (quando cioè le banche giocano in borsa “in proprio” e non su incarico di clienti), le posizioni in derivati, prestiti ed esposizioni di credito non garantito verso gli hedge fund, veicoli per investimenti strutturati, e simili. L’obiettivo è chiaro: evitare che le banche usino soldi dei propri correntisti per operazioni rischiose e che le eventuali sofferenze portino a una restrizione delle risorse disponibili per i prestiti all’economia reale.
«Non è la fine della banca universale», sottolinea tuttavia il gruppo. Anche perché non solo non è previsto una smembramento di colossi bancari, ma la separazione sarà solo a partire da una soglia: potrà scattare solo se gli asset bancari detenuti per il trading e disponibili per la vendita eccedono una soglia del 15-25% degli asset totali dell’istituto di credito o una soglia di 100 miliardi di euro. A quel punto parte la fase due: i supervisori dovranno determinare la necessità di separazione sulla base di una quota degli asset ai quali sarebbe applicato tale principio. Qualcuno si è fatto due conti, ed è saltato fuori che sarebbero costrette alla separazione interna colossi come Deutsche Bank, Bnp Paribas, Credit Agricole.
È solo una delle cinque proposte. Un’altra riguarda la necessità di «piani realistici ed efficaci» di ripresa e risoluzione che consentano, ad esempio, in caso di emergenza di chiudere o ridurre un comparto della banca senza compromettere le attività di deposito e commerciali.
Terzo punto, norme severe per il cosiddetto bail in, e cioè il coinvolgimento diretto degli investitori nell’eventuale salvataggio, o chiusura, di un istituto di credito, riducendo al massimo l’esborso dei contribuenti e su cui la Commissione Europea ha già presentato una proposta di direttiva. «È ora di porre fine al sistema in cui si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite», ha avvertito Liikanen. Il gruppo chiede inoltre revisione dei requisiti di capitale per garantire margini di sicurezza sufficienti ad affrontare eventuali shock o crisi soprattutto per le attività più rischiose.
Dulcis in fundo, il gruppo di alto livello propone che i bonus ai manager siano pagati almeno in parte in azioni, il cui valore potrà essere portato anche a zero dalle autorità di vigilanza in caso di crisi o fallimento. Della serie: basta con i manager che portano una banca al collasso e se ne vanno a casa con una “liquidazione” miliardaria.
Solo proposte, ma la Commissione – già alle prese con la complicatissima partita della sorveglianza bancaria a livello Ue – non vuole perdere tempo. «Vogliamo procedere il più rapidamente possibile», ha detto Barnier, una bozza di direttiva potrebbe arrivare «prima dell’estate».
Intanto però già si levano le critiche. «Non riteniamo che siano necessari ulteriori modifiche alla struttura dell’industria bancaria» dichiarava a caldo Simon Lewis, a capo della Afme (Association for Financial Markets in Europe, che ha tra i suoi clienti Hsbc o Deutsche Bank). Particolarmente critici i tedeschi. Le proposte di Liikanen, ha tuonato Christian Brand, presidente dell’Associazione federale delle banche pubbliche, «mettono in pericolo le strutture finanziarie ormai consolidate». E l’Associazione delle banche popolari e delle casse di risparmio parla di «via sbagliata». Dagli ambienti bancari tedeschi si lamenta che se passassero le idee del gruppo Liikanen «si metterebbe in pericolo la distribuzione del rischio». Inoltre, notano alcuni esperti, l’obbligo di coinvolgere tutti gli investitori in possibili fallimenti, potrebbe far schizzare in alto gli interessi che devono pagare le banche per vendere le proprie azioni. E il malumore è netto tra i manager, che hanno poca voglia di rischiare di tasca propria almeno i propri bonus.
Ma forse è proprio quello che vuole il gruppo di alto livello: ridurre gli incentivi al rischio, dirottando le banche sulle attività più sicure. E più utili per l’economia reale, con buona pace dei sogni di profitti vertiginosi a colpi di mutui subprime e derivati. Sarebbe una piccola rivoluzione.
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