Siano nel 1788 ed Emmanuel Joseph Sieyès scrive un pamphlet dal titolo «Saggio sui privilegi». La Francia è sull’orlo della crisi economica, ma molti sembrano non accorgersene. Lentamente monta la rabbia sociale e l’unica sfera produttiva del Paese, il mondo vasto e poliforme del Terzo Stato avvisa l’ingiustizia che la società stretta dei privilegiati.
I privilegi costituiscono un’abitudine, un costume, a cui nessuno di loro è in grado di rinunciare. Sono lo strumento che consente di avere uno status. La società intorno nel frattempo accresce la propria frustrazione il senso di distacco, da una classe di dirigenti, di nobili che percepisce come “fannulloni”, come dilapidatori di risorse, come inutili bocche da sfamare. Come umanità di cui si può anche fare a meno. Di fronte una società di privilegiati, complessivamente sorda, immersa nel proprio mondo, che ha come sola preoccupazione quella di garantire la perpetuazione del godimento dei propri privilegi. Una sola determinazione da parte di quest’ultima: non rinunciare a niente.
La battaglia di Sieyès contro i privilegi per una legge eguale per tutti e per l’uguaglianza davanti alla legge non è solo una battaglia formale, ma è essenzialmente concentrata in poche parole che forse escono dalla sua penna, ma si consegnano a noi ancora fresche. «I privilegiati ritengono di appartenere ad un’altra specie umana». Non è una questione di galateo, di buone maniere o di società temperata: è semplicemente il fondo del problema dell’eguaglianza moderna. Non basta che i privilegiati trattino bene i non privilegiati. Occorre sopprimere la divisione che il privilegio sancisce tra chi gode del privilegio e che ne è escluso. Per conseguire questo risultato non si tratta di estendere il privilegio a tutti. Ma di abolirlo.
Emmanuel Joseph Sieyès, Contro la società dei privilegi
È stato detto che il privilegio costituisce una dispensa per coloro che ne beneficiano e una fonte di scoraggiamento per tutti gli altri. In effetti è una ben miserabile invenzione. Non è forse chiaro che, per quanto ben organizzata e sviluppata sia una società, per scardinarla non occorre altro che dispensare tutti e scoraggiare gli uni e gli altri? (…)
Tutti i privilegi, indistintamente e chiaramente, consistono o nel dispensare dall’osservanza della legge, o nell’attribuire un diritto esclusivo a qualcosa che non è garantito per legge. L’essenza del privilegio risiede nel derogare al diritto comune, a cui ci si può sottrarre soltanto in una di queste due forme. (…)
Esiste una legge fondamentale alla quale tutte le altre sono subordinate: Non fare torto ad altri. Questa grande legge naturale è tradotta dal legislatore nei termini particolari delle diverse disposizioni necessarie per un ordinario assetto della società; essa è la fonte di tutte le leggi positive. Sono buone leggi quelle idonee ad impedire che si rechi pregiudizio ad altri; e sono conseguentemente cattive quelle inefficaci, sia direttamente che indirettamente, a tale scopo: esse intralciano la libertà e sono l’opposto delle leggi realmente buone. (…)
Con l’ausilio di questi principi elementari possiamo già dare un giudizio sui privilegi. Quelli che hanno ad oggetto una esenzione dalla legge sono ingiustificati: infatti, mentre ogni legge, come si è osservato, dice direttamente o indirettamente non fare torto ad altri, ai privilegiati si dice a voi è permesso fare torto ad altri. Ora, non vi è potere al mondo che ossa fare una simile concessione. Se una legge è buona, essa è vincolante per tutti; se non lo è occorre abolirla: essa costituisce un attentato contro la libertà.
Similmente a nessuno può essere concesso un diritto esclusivo a ciò che non è vietato dalla legge, perché si defrauderebbero i cittadini di una parte della loro libertà. (…) Tutti i privilegi sono dunque, per natura delle cose, ingiusti, odiosi, e contraddittori rispetto al fine ultimo di ogni società politica. (…)
Quando i ministri conferiscono a un cittadino un privilegio, si fa strada nel suo animo un interesse particolare che lo rende sordo alle sollecitazioni dell’interesse comune. L’idea di patria si restringe nei limiti angusti della casta di cui egli entra a far parte, e tutti i suoi sforzi, prima posti fruttuosamente a servizio della cosa pubblica, si orientano man mano nella direzione opposta. Lo si voleva incoraggiare a fare meglio, e si è finiti col renderlo peggiore.
Nasce allora in lui come un bisogno di primeggiare sugli altri, un desiderio insaziabile di dominio, purtroppo insito nella natura umana, che costituisce un vero morbo antisociale: sono prevedibili i danni che esso,già per sua essenza nocivo, produce quando l’opinione e la legge gli accordano il loro potente appoggio.
Analizziamo questi nuovi sentimenti del privilegiato. Egli crede di formare con i suoi pari un ordine separato, una nazione nella nazione, e di essere obbligato in primo luogo nei confronti dei membri della propria casta; per cui, continua ad occuparsi degli altri, lo fa appunto in quanto sono gli altri, diversi da lui. Non si tratta più di quel corpo cui prima apparteneva, ma del popolo, quel popolo che ora viene ridotto, sia nel suo linguaggio, sia nel suo animo, ad un insieme di nullità, una classe di uomini creata espressamente per servire, mentre lui è fatto per comandare e ricevere. Sì, i privilegiati ritengono di appartenere ad un’altra specie umana. (…)
I due grandi propulsori della società sono il denaro e l’onore. Essa si regge grazie al bisogno che si ha di entrambi,, e in una nazione in cui si apprezzi il valore di una retta condotta devono essere sentiti l’uno e l’altro contemporaneamente. Il desiderio dio meritare la pubblica stima, possibile per ogni professione, è un freno necessario alla passione delle ricchezze.
Vediamo come questi due sentimenti si trasformano nella classe dei privilegiati.
L’onore, per loro è assicurato, è un appannaggio sicuro. Già è molto che per gli altri cittadini l’onore sia il premio della attività da essi svolta; ai privilegiati, è stato sufficiente nascere. Essi non sentono il bisogno di procurarselo, e possono rinunciare in anticipo a tutto ciò che tende a meritarlo.
In quanto al denaro, i privilegiati devono certo sentirne un vivo bisogno. Il pregiudizio della propria superiorità li spinge di continuo ad aumentare le proprie spese, il che ancor più li dispone ad abbandonarsi a questa ardente passione, né essi, così facendo, devono temere come glia altri di perdere ogni stima ed onore.
Ma per una bizzarra contraddizione, questo pregiudizio, mentre li costringe continuamente a consumare il proprio patrimonio, gli impedisce allo steso tempo di usare un qualsiasi mezzo onesto per poterlo reintegrare.
Per soddisfare questo amore per il denaro il loro predominante ai privilegiati rimane dunque soltanto l’intrigo e l’accattonaggio. Tali occupazioni divengono l’attività specifica di questa classe di cittadini, facendola sembrare in qualche modo reinserita nell’insieme operante della società.