Il regionalismo è da rifare, Monti fa bene ad azzerarlo

Il regionalismo è da rifare, Monti fa bene ad azzerarlo

«Nelle materie concorrenti, se esiste un’esigenza di unità nazionale, economica, o di tutela di diritti fondamentali, è la legge dello Stato a prevalere. Nella legislazione esclusiva dello Stato rientrano il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, le grandi reti di trasporto e navigazione, la disciplina dell’istruzione, il commercio con l’estero, la produzione e distribuzione nazionale dell’energia». Sono queste le idee guida che ispirano il disegno di legge costituzionale approvato dal governo Monti per ridisegnare le relazioni fra autorità centrali e amministrazioni locali nel segno del rigore di bilancio e del risanamento finanziario. Prospettiva a cui è improntato il riconoscimento nella Carta fondamentale della competenza della Corte dei Conti a controllare gli atti e i conti delle regioni. Per porre fine alla proliferazione incontrollata delle spese e alla moltiplicazione dei costi della politica anche a livello locale, l’esecutivo decide di stroncare il sogno leghista delle scuole regionali e il veto degli enti locali su rigassificatori o tunnel ferroviari strategici.

Autorevoli osservatori e analisti individuano nel provvedimento messo a punto da Palazzo Chigi l’espressione di una vocazione neo-centralista e il sigillo della rivincita dello Stato napoleonico e prefettizio contro l’articolazione regionalistica del nostro ordinamento. L’esperienza politica nata nel 1970, proseguita con il decentramento amministrativo degli anni Novanta e coronata dalla riforma costituzionale del Titolo V nel 2001, ha fallito nei suoi obiettivi e la classe dirigente locale si è rivelata del tutto inadeguata al progetto ambizioso di una Repubblica delle autonomie. Ma possiamo condannare con l’ondata degli scandali che stanno investendo le regioni il valore del messaggio federalista? Nell’Italia di oggi hanno ancora senso e attualità le ragioni dell’autonomismo?

Linkiesta ha rivolto questi interrogativi a Massimo Bordignon, professore di Scienza delle Finanze all’Università Cattolica di Milano, dove dirige anche la Doctoral School in Public Economics. Tra i maggiori esperti delle problematiche legate al federalismo fiscale, lo studioso rifiuta l’idea di attribuire agli enti territoriali il marchio di centrali elefantiache della spesa pubblica, di identificarle con l’irresponsabilità e il dissesto finanziario tout court. E rilancia la strada di un “regionalismo differenziato” di tipo spagnolo per coniugare l’autogoverno e la responsabilità finanziaria dei territori con la necessità del risanamento dei bilanci.

Il progetto di riforma costituzionale messo a punto da Palazzo Chigi riflette una prospettiva neo-centralista?
La crisi finanziaria che attanaglia l’Italia e buona parte dell’Europa costituisce una spinta formidabile verso il nuovo e progressivo accentramento, un ritorno al pieno controllo del governo nazionale sui bilanci e le finanze pubbliche locali. Ma questo fenomeno ha poco a che vedere con le modifiche della Carta fondamentale.

Perché?
Gli enti territoriali nel nostro paese non hanno mai goduto di autentici spazi di autogoverno, soprattutto nel campo tributario e finanziario. Anzi, il livello più elevato di decentramento è stato realizzato prima della riforma costituzionale del Titolo V nel 2001. Successivamente gli esecutivi nazionali hanno bloccato a più riprese la tassazione locale, riducendo le addizionali comunali Irpef, rimodulando l’ammontare dell’Irap, dimezzando con Romano Prodi e abrogando con Silvio Berlusconi l’Ici sulla prima casa. Fino all’adozione dei Patti di stabilità interni, che rappresentano un’aperta violazione dell’autonomia fiscale e della responsabilità economica delle istituzioni locali. Che oggi sia indispensabile cambiare la Costituzione per risanare la spesa pubblica è del tutto fuori luogo.

Anche nel caso delle regioni?
In gran parte sì. Le faccio un esempio. I piani di rientro dall’enorme debito sanitario accumulato negli anni Ottanta, e le politiche di commissariamento del comparto della salute, sono stati attuati nel decennio scorso. E hanno favorito un controllo diretto e stringente da parte dello Stato. Al punto che oggi ogni delibera sanitaria emanata dalla Regione Lazio, per essere valida, richiede la firma dell’ufficiale governativo. A differenza di quanto avvenuto in Spagna o in Belgio, le istituzioni nazionali non hanno mai abbandonato la supervisione sulla vita e sul funzionamento degli enti locali.

Ma allora quale è la ragione profonda del dissesto finanziario e delle spese incontrollate che contraddistinguono numerose istituzioni regionali?
È tutta in una contraddizione radicale e irrisolta, in un dualismo schizofrenico, fra l’orientamento autonomistico che sia pure in modo incoerente ha ispirato le riforme costituzionali e politiche degli ultimi anni, e una realtà di autonomia e responsabilità economico-fiscale assai ridotta. Nei fatti il governo nazionale ha prevalso nelle strategie e nelle dinamiche finanziarie dei territori. E rifiutando per anni di imporre i vincoli di un fiscal compact e di una spending review ante litteram, ha esercitato un ruolo significativo nell’aumento esponenziale della spesa pubblica regionale. In tal modo abbiamo realizzato un’autogoverno fittizio, minimale, tutto legislativo e poco pratico. Con il risultato di alimentare nelle amministrazioni una spinta perversa a rivendicare margini di spesa e di manovra. Così sono nate le follie nel dispendio delle risorse pubbliche per scopi assistenziali e clientelari, l’incremento continuo del numero dei consiglieri regionali e dei fondi destinati a gruppi politici nelle assemblee, l’istituzione di uffici di rappresentanza all’estero. Per non parlare della regola per cui il governatore di una regione con il bilancio sanitario pieno di voragini diventa commissario straordinario della sanità locale.

La riforma del Titolo V ha contribuito a tale schizofrenia?
L’intervento attuato nel 2001 ha provocato enormi discrasie. Consideriamo le ventiquattro materie attribuite dall’articolo 117 alla potestà concorrente di regioni e Stato. Un elenco sterminato e contraddittorio, inevitabilmente oggetto di ripetute sentenze interpretative della Corte Costituzionale che ha risolto a favore dello Stato le molteplici controversie scaturite da una simile ripartizione.

Nutre fiducia sull’incisività dell’iniziativa adottata dal governo Monti?
La proposta dell’esecutivo è nel complesso ragionevole e si muove nella giusta direzione, anche se non credo andrà in porto vista l’imminente scadenza della legislatura. Si tratta di un documento di natura essenzialmente politica, che riflette la volontà dello Stato di imporre a ogni livello istituzionale il parametro e il vincolo del pareggio di bilancio. E si pone l’obiettivo di mettere in atto tagli drastici alla spesa pubblica anche negli enti territoriali. Una “ripulitura e bonifica” che risultano utili e compatibili con le ragioni di una corretta autonomia, e possono porre fine a privilegi illegittimi come la selva di agevolazioni tributarie e finanziarie delle regioni a statuto speciale. Ma per delineare un equilibrio razionale di poteri e funzioni, basato su regole che permettano alle amministrazioni locali di disporre di risorse proprie in forma virtuosa, è opportuno superare forzature illogiche.

Quali?
Penso ai patti di stabilità interni, congegnati secondo regole che non hanno eguali in Occidente. Negli altri paesi europei gli enti territoriali sono sottoposti a rigorosi standard e controlli nazionali di bilancio, allo scopo di evitare qualunque “azzardo morale” e di ricorrere a spese dissennate che ricadono sulle spalle della collettività. Lì è ammessa la possibilità di indebitarsi entro determinati limiti e solo per realizzare investimenti pubblici. Mentre in Italia ai comuni e alle regioni viene imposto un surplus di bilancio da destinare alla tesoreria centrale per le uscite statali. Il tutto in modo generalizzato. Una rigidità che cozza con l’analisi dei dati concreti, da cui si evince che non tutta l’esperienza regionale è negativa. È da tempo che gli standard qualitativi e i costi della sanità in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, si attestano su un piano di eccellenza nelle graduatorie internazionali anche per quanto riguarda l’aderenza con le esigenze del territorio. Riportare ovunque al Ministero della salute le competenze fondamentali di un comparto così delicato è inefficace e controproducente.

Esiste un modello specifico di federalismo da privilegiare per l’Italia?
Le esperienze autonomistiche nel mondo sono variegate e ognuna presenta difetti. Ragion per cui preferirei ragionare partendo dal tessuto istituzionale del nostro paese, costituito da migliaia di comuni che è doveroso accorpare e diminuire. Esattamente come stabilito in Danimarca, con risultati eloquenti: servizi migliori a prezzi più bassi. Sempre ispirandoci agli ordinamenti più avanzati dei paesi europei sarebbe opportuno decentrare l’organizzazione dell’istruzione e degli uffici pubblici, per armonizzarle con le esigenze dei territori. Ma il cardine di una riforma strutturale parte dal recupero dell’articolo 116 della Costituzione, che riconosce alle regioni la possibilità di ottenere forme di autonomia differenziata, sulla base delle loro effettive capacità e del grado di efficienza raggiunta. Una devoluzione di prerogative rilevanti a chi può permetterselo, diversa dal decentramento uniforme e retorico che concede a tutti le stesse funzioni e produce un unico risultato: oggi otto regioni, quasi tutte meridionali, sono sotto il controllo dello Stato perché hanno sforato il bilancio. 

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