REGGIO CALABRIA – Aperte le celle, fatta la conta e accolti a bordo i detenuti, la mattina del 29 settembre un cellulare della Polizia penitenziaria ha lasciato lo spiazzo del carcere «Luigi Daga», ha percorso in uscita il viale «Paolo Quattrone» e si è messo alle spalle le case di Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria. Trasferimento di sola andata. Se e quando i detenuti potranno tornare nel comune calabrese della piana di Gioia Tauro e, soprattutto, all’interno di quello strano istituto di pena che pure i giapponesi sono venuti a studiare, a Roma lo devono ancora decidere. Nella sede del Dap si sono limitati, al momento, a operazioni di addizione e sottrazione, decretando la temporanea sacrificabilità del carcere di Laureana che agli uffici ministeriali della Capitale, in largo Luigi Daga numero 2, è legato anche da faccende di toponomastica. Faccende significative.
«Bisogna certo rifondare la certezza della pena, ma sullo sfondo della persistenza del principio costituzionale italiano di cui all’articolo 27, comma 3°, che dice che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Al congresso dell’associazione egiziana di Diritto criminale, nel 1993 a Il Cairo, Luigi Daga pronunciò il suo ultimo discorso pubblico. La sera del 26 ottobre un terrorista si mise a sparare tra gli stranieri seduti nella caffetteria dell’hotel Semiramis, dove Daga alloggiava. L’italiano si prese più pallottole in testa, fu operato d’urgenza ma morì qualche giorno dopo a Roma. Aveva 46 anni e il carcere lo conosceva bene. Da magistrato per averci spedito le persone, da direttore dell’ufficio Studi e Ricerche del Dap per averlo studiato approfonditamente. Fino ad arrivare ad una certezza: la detenzione slegata da un concreto progetto di rieducazione e reinserimento è il fallimento del sistema; il carcere può e deve trasformarsi in un’occasione di trasformazione per il detenuto.
Nel 2004 nessuno dubita che la nuova casa circondariale di Laureana di Borrello, inaugurata dopo vent’anni di lavori, vada intitolata a lui: istituto sperimentale a custodia attenuata «Luigi Daga». «Non so a cosa pensasse colui che scrisse l’art. 27 della Costituzione, ma posso dire che sicuramente è vicino a questa struttura che lo realizza compiutamente», dichiara, tagliando il nastro, il ministro della Giustizia Roberto Castelli. Non sarà meno entusiasta, cinque anni dopo, il nuovo Guardasigilli Angelino Alfano: «L’esperimento dell’istituto penitenziario a custodia attenuata di Laureana di Borrello dovrà essere esteso e ripetuto in altre regioni. Apprezzo l’idea e la metodologia reiducativa che si basa sul lavoro».
Nel 2004 e nel 2009, quindi, Laureana viene salutato come un prototipo da esportare in tutta Italia. Destinato a detenuti calabresi tra i 18 e i 34 anni, al primo reato e senza legami con la ’ndrangheta, il modello è stato trasformato in progetto dal provveditore dell’Amministrazione penitenziaria calabrese Paolo Quattrone, suicida nel luglio 2010, coinvolgendo pezzi del terzo settore, ma anche del sistema imprenditoriale e scolastico calabrese. Una rivoluzione: due «ospiti» per cella, la scuola, la falegnameria, il laboratorio di ceramica, le serre dove lavorare tutto il giorno. E un patto da firmare con lo Stato prima di entrare, e dopo una serie di accurate selezioni, nella certezza che al primo sgarro, al primo segnale di mancanza di impegno e serietà, si verrà rispediti dritti dritti all’indirizzo di provenienza. Ovvero nel quotidiano inferno degli altri undici istituti di pena calabresi, con 3.046 detenuti su una capienza di 1.875 posti (dati Dap al gennaio 2012) e situazioni drammatiche come quella dell’istituto di Castrovillari: due suicidi nel 2011 su «soli» 285 detenuti presenti e una media del 217% di affollamento.
Dati in linea con uno scenario nazionale che vede il carcere di Laureana affermarsi ben presto nelle statistiche, nei dossier di «Antigone» e nei racconti degli ex detenuti come un’oasi di dignità umana e civiltà nel deserto dei più elementari diritti. Ma l’esperimento, buono da usare come gagliardetto nelle occasioni ufficiali, è diverso, troppo diverso per non essere trattato, nei fatti, con diffidenza e scetticismo. E infatti l’istituto «Luigi Daga» non ha vita facile. Il direttore Angela Marcello fatica non poco tra fondi tagliati anno dopo anno, giorni lavorativi ridotti a poche ore e sempre meno ospiti rispetto alla capienza di 68 detenuti. Nonostante i dati sulla recidiva raccontino una cosa chiara e incontrovertibile: tra gli ex «residenti» del Luigi Daga, solo uno su 40 torna a delinquere. Braccia rubate al crimine, insomma. Nello specifico, braccia sottratte alla ’ndrangheta che proprio nelle celle, lungo i corridoi e nei cortili delle case circondariali promuove le sue campagne acquisti più proficue e il carcere di Laureana non l’ha mai troppo amato: roba da «infami». Fino all’involontaria ma simbolica vendetta trasversale.
A chiudere il carcere di Laureana il 29 settembre sono stati, infatti, i maxi-processi contro la ’ndrangheta in corso a Reggio e Palmi. Complici le decine di imputati dei clan da trasferire dalle case circondariali ai Tribunali e la drammatica carenza d’organico della polizia penitenziaria, procedimenti importanti come “All inside” e “Meta” hanno infatti subito negli ultimi mesi numerosi rinvii. Pensa che ti pensa, aggiungi e sottrai, la soluzione è apparsa normale: chiudere il «modello da esportare» per racimolare i 29 agenti di Laureana e applicarli ai trasferimenti dei detenuti. Il male minore, devono aver pensato al Dap, ché per l’utopia c’è sempre tempo. Come per chiudere il concorso per 271 posti di allievo vice ispettore in piedi da 10 anni. Ma questa, forse, è un’altra storia. Dal Dipartimento, dopo il coro di proteste levato dal territorio, hanno comunque rassicurato: chiusura temporanea. Nel frattempo gli ospiti che avevano scommesso sul proprio cammino di recupero sono stati rispediti senza spiegazioni e senza data di rientro nella normalità dell’inferno. Ma ad avere infranto il patto con lo Stato, questa volta, non sono stati loro.