«Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace per poterlo cambiare». È una riflessione densa e illuminante di Paolo Borsellino ad accompagnare come nota dominante lo spettacolo scritto e interpretato dall’autore-attore Ruggero Cappuccio, Paolo Borsellino Essendo Stato, andato in scena al Teatro Arcobaleno di Roma. Un testo di rara intensità, capace di cogliere i tratti salienti della personalità di un magistrato e di un uomo, e di trasmetterne il valore grazie all’accurata ricostruzione di alcuni passaggi cruciali della sua esistenza.
Unico personaggio presente su un palcoscenico disadorno, con lo sfondo attraversato da poche immagini in bianco e nero rappresentative della storica siciliana e una musica rispondente alla potenza emozionale dei fatti narrati, Cappuccio trae spunto dal tragico e cruciale 19 luglio 1992. La pièce si apre con l’immagine del procuratore aggiunto di Palermo a terra, mentre risuona il rumore degli elicotteri che sorvolano l’area di Via Mariano D’Amelio appena sconvolta da una tremenda deflagrazione. Chiamando i suoi agenti di scorta colpiti dall’attentato e «a stretto contatto con la terra calda e profonda, antica e muta, della sua Sicilia», Borsellino ricompone ricordi e sogni di una vita. Nel dubbio di essere già morto o ancora vivo, il magistrato rivive tutte le frazioni di secondo di quel minuto fatale per riaffermare con lucidità la propria ragion d’essere: la tensione assoluta verso l’idea di giustizia animata dalla sete di verità.
È l’imperativo di rivendicare e far conoscere la verità di atti, comportamenti, sacrifici, che anima con un ritmo pulsante l’ultima frazione di secondo, inondata dalla sua energia vitale. Fino all’ultimo respiro possibile il magistrato lotta con il rigore di un’intelligenza penetrante, con la forza inesauribile della sua passione civile, con gli strumenti sottili di un’ironia capace di mettere a nudo le falsificazioni del potere. E parla, racconta, con il timbro vibrante e stentoreo della sua voce, riprodotta dall’autore con mirabile acutezza.
Lo fa mentre il tempo si è fissato sulle 16.58 di una torrida domenica estiva di vent’anni fa. Conta e scandisce il trascorrere dei preziosi istanti di vita, per gettare fasci di luce sulla verità della sua opera di magistrato che non ha mai abbandonato la Sicilia. Perché solo impegnandosi in un’attività di frontiera contro l’illegalità e la sopraffazione di Cosa Nostra ne ha potuto cogliere la natura più segreta e le sue infinite ramificazioni. È lui, con l’amico fraterno Giovanni Falcone e i colleghi del pool palermitano, ad avere compreso e ricostruito la mentalità e i meccanismi occulti che per decenni avevano costituito il punto di forza dei vertici mafiosi. Furono i due magistrati uccisi nel 1992 ad avere dimostrato che «per combattere la mafia non bisogna considerarla come una piovra mostruosa, poiché il suo terreno di coltura, i suoi modi di ragionare e agire sono assai più vicini a noi, alle persone perbene e oneste, di quanto possiamo immaginare».
Grazie alla loro attività investigativa e scientifica, sfociata nella montagna processuale del maxiprocesso del 1986, abbiamo maturato la consapevolezza delle affinità più insospettabili tra il costume mafioso e il «quieto vivere» di un mondo indifferente, cinico, desideroso di venire a patti con una realtà radicata da secoli nel territorio siciliano. Una spinta formidabile alla ricerca dell’accordo e della mediazione che ha animato la strategia delle istituzioni. «Lo Stato che io e i miei colleghi dovremmo rappresentare ha coltivato per anni la piaga malavitosa nel suo seno, permettendo ad essa di assolvere con la violenza e il terrore ai compiti che non voleva realizzare con gli strumenti della legalità». E così nella stessa regione, si sono andate affermando nel tempo due forme di sovranità apparentemente conflittuali. Al contrario, osserva Borsellino-Cappuccio, nella nostra isola di rara e struggente bellezza, che ha conosciuto la dominazione degli Arabi e della dinastia Svevo-Normanna, degli Angioini e degli Aragonesi, i due universi hanno raggiunto un compromesso.
«Un accordo di guerra o una guerra portata avanti d’accordo, le cui prime vittime sono stati proprio gli uomini che incarnavano la legalità, i medici incaricati dalle istituzioni di intervenire per curare la piaga putrescente di Cosa Nostra». La loro opera doveva tenere presente un limite invalicabile: «Giudici ed esponenti delle forze dell’ordine non potevano giungere all’eliminazione del male, non dovevano rimuoverlo in maniera definitiva, poiché quel flagello contribuiva ad alimentare e legittimare la continuità di un ceto dirigente ambiguo e connivente. Giudici e forze di polizia dovevano rappresentare l’alibi perfetto per sancire il perpetuarsi di una coesistenza improntata alla complicità. E al silenzio».
Silenzio che, nella Sicilia dove il significato autentico delle parole rovescia quasi sempre la logica convenzionale del linguaggio, vuole dire accettazione passiva del prepotere criminale. Ma equivale anche a una consapevolezza più profonda e secolare, fiera e cosciente, vera e invisibile: quella di chi, come la madre del giudice e le figure femminili che ne accompagnano la vita, partecipa al suo destino ormai scritto. Una coscienza che richiama le radici classiche del teatro e del pensiero greco, saldamente legate al profilo di «eroe moderno» che distingue l’esistenza del magistrato. Eroe genuino e ironico, libero e lontano dal peso della retorica, in grado di battersi senza armi contro le armi, senza violenza contro la violenza, senza protervia contro omicidi, stragi, tradimenti. Eroe psicologico forte di una disarmante lealtà intellettuale e di una capacita intuitiva irripetibile. E con simili strumenti il giudice sfida il manto di silenzio e falsificazione che avvolge ancora oggi pagine cruciali della sua esperienza professionale. Ritorna indietro nel tempo, a un’altra giornata estiva di pochi anni prima, il 31 luglio del 1988, quando davanti al Consiglio superiore della magistratura lui e Falcone pronunciarono parole profetiche e anticipatrici.
Nel corso di due distinte audizioni gli architetti del maxiprocesso alla Cupola denunciarono «lo smembramento progressivo dell’iniziativa unitaria del pool antimafia e la dispersione irresponsabile del suo patrimonio da parte del nuovo capo dell’ufficio istruzione della Procura di Palermo, il giudice Antonino Meli che proprio a gennaio, ad opera del Csm, era stato preferito a Falcone per ricoprire quel ruolo decisivo». Lo avevano gridato con fermezza i due amici fraterni, che avevano deciso di rendere pubblici i contenuti di diverse conversazioni con i colleghi del pool: «Così non si può più andare avanti. Prescindendo del tutto dal bagaglio di conoscenze sul fenomeno mafioso acquisito in anni di intenso lavoro di squadra, Meli assegna sempre più di frequente indagini delicate su Cosa Nostra a magistrati privi di esperienza e svilisce la qualità dei componenti del team creato da Rocco Chinnici, dirottando il loro lavoro verso i casi di malavita comune».
Riflessioni destinate ad essere vanificate, così come quelle illustrate da Falcone all’organo di autogoverno della magistratura: «A Palermo e nelle altre città più interessate dai traffici delle organizzazioni mafiose manca una vera forza di polizia. Non mi riferisco al numero di agenti e militari presenti sul territorio, ma alla qualità del loro impegno. È estraneo a ogni logica destinare centinaia di uomini in divisa al presidio del tribunale di Palermo o alla scorta di politici e ministri. Perché oggi più che mai vi è un disperato bisogno di intelligence altamente preparata e in grado di fiutare la direzione delle attività investigative. L’ultimo esempio di vero poliziotto capace di muoversi nella terra dominata da Cosa Nostra e in sintonia con il pool è stato Boris Montana, assassinato da killer mafiosi nel 1985».
L’allarme lanciato dai due magistrati venne accolto nel silenzio, se non nella diffidenza e ostilità anche di una parte significativa del pianeta giudiziario. Che accusava Giovanni e Paolo di essere preda di «mania di protagonismo e delle ambizioni professionali». Così fu consolidato il loro isolamento, il loro accerchiamento ad opera di «menti raffinatissime» attive nel cuore dello Stato e negli apparati deviati della politica, complementari alla logica mafiosa che teneva prigioniere intere regioni del paese grazie a un substrato culturale ostile al diritto e alla verità. La stessa morsa criminale che portò alla morte di tutti gli individui pericolosi per la conservazione degli equilibri criminali e per la pretesa di eternità del dominio di Cosa Nostra. È a questo punto che, in un crescendo incessante, Borsellino-Cappuccio ripercorre in un caleidoscopio di immagini nomi e simboli delle vittime della prevaricazione mafiosa. Un percorso che parte nel settembre 1970, con il rapimento e l’assassinio del giornalista de L’Ora di Palermo Mauro De Mauro, e prosegue nel 1972 con l’omicidio del primo magistrato, il procuratore capo del capoluogo siciliano Pietro Scaglione.
Poi attraversa gli anni Settanta e Ottanta, con un’interminabile scia di sangue che colpisce giudici e uomini politici, poliziotti e carabinieri, da Carlo Alberto Dalla Chiesa a Pio La Torre e Piersanti Mattarella, da Cesare Terranova e Gaetano Costa a Rocco Chinnici e Ciaccio Montalto, fino al «giudice ragazzino» Rosario Livatino, da Boris Giuliano e Lenin Mancuso a Boris Montana e Ninì Cassarà. La lunga traversata arriva al 1991, con i due omicidi altamente simbolici dell’imprenditore Libero Grassi, colpevole di rifiutare e denunciare le estorsioni malavitose sulle attività commerciali, e del magistrato calabrese Antonino Scopelliti, incaricato di rappresentare le ragioni dell’accusa nell’imminente udienza della Corte di Cassazione sulle condanne inflitte ai vertici di Cosa Nostra nel Maxi processo istruito dal pool. È il punto di svolta nel racconto del magistrato siciliano. Si aprono le porte del 1992 e lui, sospeso tra la vita e la morte, si ritrova in un luogo surreale dove riposano tutti gli uomini caduti nella lotta alla Cupola. Giunge davanti a una stanza dove sono «i tre agenti di scorta di due magistrati che conosce bene, Giovanni e Francesca». Vi entra e ritrova l’amico fraterno di una vita.
Sono attimi racchiusi in una frazione di secondo delle 16.58 di quella domenica del luglio 1992, ma sembrano dilatare i loro confini al di là del tempo. Con Falcone di nuovo a fianco, Paolo naviga nella memoria spaziando fra i ricordi più intensi e struggenti. A partire da un sabato di maggio di tanti anni prima, quando i due amici fraterni giocarono una partita di calcio indimenticabile nel quartiere della Calza dove erano cresciuti. Un loro amico comune di nome Carmelo aveva avuto in regalo dai parenti dagli Stati Uniti un pallone nuovo, di cuoio: assai diverso dai palloni artigianali di pezze e stracci a cui erano abituati. Fu un incontro epico, di quelli destinati a restare indelebili. Paolo in porta fu capace di parare tutto, deviando in calcio d’angolo i tiri più insidiosi. Poi lanciò il pallone in avanti superando il blocco di giocatori avversari e liberando Giovanni che era solo in attacco. Allora non esisteva il fuorigioco, e l’amico in area di rigore batté il portiere per due volte: 2 a zero! Nulla e nessuno sembravano in grado di ostacolare una vittoria storica, sugellata dall’abbraccio dei due ragazzi. Ad un tratto Carmelo, che giocava nella squadra avversaria, prese la palla e disse: «La partita è rinviata, e il risultato si vedrà solo alla fine».
Sono forse queste parole a riassumere il senso più profondo della parabola esistenziale dei due magistrati, costretti a giocare una partita che non finisce mai, dall’esito continuamente messo in discussione. Per questo motivo, puntualizza Borsellino-Cappuccio, «io e te Giovanni siamo gli sconfitti più vincenti della storia». Era una calda giornata di maggio, quella della partita di calcio, ed era maggio anche il pomeriggio in cui, molti anni più tardi, dopo una corsa in ambulanza tra l’autostrada di Capaci e l’ospedale di Palermo, Paolo abbracciò ancora il suo amico tenendogli la mano per l’ultima volta. Proprio ora che lo rivede, avverte tutta la nostalgia per non averlo abbracciato abbastanza, per non essersi fatto abbracciare quanto era necessario da colui che amava definire «il proprio scudo». Al punto che nel momento della sua scomparsa Borsellino maturò la certezza della sua fine incombente, la consapevolezza dello stringersi giorno dopo giorno della morsa criminale su cui convergeva l’impasto di forze interessate a isolarlo e a farlo tacere per sempre.
È in quel pomeriggio del 23 maggio di vent’anni fa che il magistrato inizia la sua disperata e cosciente corsa contro il tempo, gettandosi con tutta la passione nell’indagine sul rapporto tra mafia e appalti a cui stava lavorando negli ultimi tempi l’amico fraterno. Ultima pista investigativa per tentare, contro la corrente prevalente, di scalfire e rompere ancora una volta equilibri di potere mafioso ancora più penetranti e pervasivi. Una corsa compiuta in solitudine e contando sulla fiducia di pochissime persone negli assolati e deserti corridoi del Palazzo di giustizia. Verificando in maniera febbrile ogni possibilità di indagine, studiando centinaia di carte e interrogando testimoni preziosi. Al suo fianco resta solo la sua famiglia, le donne della sua famiglia e suo figlio Manfredi. «Il mio problema è sempre stato quello del tempo», scandisce Borsellino-Cappuccio al termine della ricostruzione teatrale. Ma ora la corsa contro il tempo è finita.
La scena torna alle 16.58 del 19 luglio 1992, subito dopo l’attentato. Nonostante tutto, ma proprio per restare fedele a se stesso, a Giovanni, alla sua idea di giustizia, alla sua terra, in un estremo slancio di amore e di vita, il magistrato ripensa a quella giornata. Pensa al mare dove era andato poche ore prima, al fascino di colori e profumi in cui si era immerso con gioia, sfidando in modo spudorato e impertinente la logica paralizzante del terrore. Una bellezza antica e selvaggia, più forte della stessa violenza e delle reti di complicità criminali.