Quando la Siria ha abbattuto un jet da ricognizione turco lo scorso giugno, le voci in Israele erano orientate verso una sola interpretazione: Ankara sta cercando una scusa per intervenire in Siria. Sembra che il pretesto sia giunto nei giorni scorsi, quando colpi di mortaio sono stati lanciati dalla Siria verso la città turca di Akçakale, uccidendo cinque civili, tra cui tre bambini. Il dittatore siriano Bashar al-Assad si è preoccupato subito di far giungere le sue scuse tramite le Nazioni Unite, specificando che si sarebbe trattato di un incidente. Il danno politico, però, era fatto: il parlamento di Ankara ha autorizzato l’intervento militare “a scopi difensivi” anche oltreconfine. La Turchia vuole avere un ruolo nel conflitto civile siriano, passando dalla diplomazia alle armi.
La decisione è importante, perché segna un cambiamento nella strategia turca di presenza in Medio Oriente. Nel disegno “neo-ottomano” del mandato attuale del premier Recep Tayyip Erdogan, elaborato dal ministro degli esteri Ahmet Davutoglu, la politica estera turca doveva marciare in due direzioni parallele. Da una parte c’era il piano commerciale, che prevedeva lo sviluppo degli scambi e delle relazioni economiche con gli stati confinanti. Non a caso, i turchi vedevano nella Siria “la Turchia com’era trent’anni fa”, ancora completamente da sviluppare.
L’altra direzione riguardava l’ambizione politica, in cui la Turchia si doveva proporre come potenza islamista-democratica alternativa al massimalismo iraniano. Di questa direttiva facevano parte operazioni come “Flotilla”, per l’assistenza umanitaria ai palestinesi residenti nella Striscia di Gaza – con chiari obbiettivi di discredito verso Israele. Ankara ha tentato anche l’aggancio con la Russia: per passare dalle relazioni energetiche (con i nuovi piani di pipeline che prevedono una cooperazione stretta) a un coordinamento politico, nonostante le otto guerre che i due Paesi si sono combattuti in un paio di secoli. I fatti degli ultimi mesi hanno spinto la Turchia a riconsiderare tutto il processo, per passare dalle velleità neo-imperialiste all’arido pragmatismo della realpolitik. Il fallimento del neo-ottomanesimo ha riguardato sia la direzione politica che commerciale.
Dal punto di vista politico, è emerso chiaramente che la “primavera araba” proprio una “primavera” non era, e che più che “araba” era “islamica”. La chiave del nuovo potere non è “pan-islamica”, ma squisitamente localista, quasi tribale. Ai gruppi di potere che controllano gli apparati statali in Egitto, Tunisia e Libia non può importare di meno che la Turchia si proponga come modello politico egemone. C’è poco interesse per ciò che accade oltre i confini nazionali. Per il resto, i vecchi regni petroliferi e non sono rimasti indifferenti alle politiche turche – un atteggiamento pressoché invariato dalla fine della rivolta araba nel 1918.
Da qui, anche “Flotilla” è stata un disastro, perché alla Turchia non ha portato nulla. Insieme ai tanti attivisti presenti, sulle navi che hanno cercato di raggiungere Gaza c’era una delegazione cospicua di membri della Fratellanza Mussulmana, la stessa organizzazione che ha vinto le elezioni in Egitto. Come tutte le strutture così ampie e diffuse, anche la Fratellanza conta appartenenti più o meno moderati, ma secondo fonti occidentali e israeliane lo scopo dei passeggeri della Fratellanza in corciera su Flotilla era rinsaldare i rapporti con Hamas. La Turchia si è trovata coinvolta in un’operazione potenzialmente destabilizzante per Israele, senza averne reale controllo, e senza alcun tornaconto tangibile.
Il collegamento tra politica e commercio passa proprio per Israele. Tra sanzioni iraniane, rivolte e guerre civili, è proprio con Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme che la Turchia ha visto impennare le relazioni commerciali regionali negli ultimi tempi. Erdogan si era sforzato al massimo perché ciò non avvenisse: nel settembre del 2011 aveva dichiarato soddisfatto di aver interrotto “tutti gli accordi militari e commerciali con Israele”. Peccato che, nello stesso periodo, i rapporti commerciali bilaterali superassero il livello di quattro miliardi di dollari l’anno, con previsioni di sorpassare i cinque miliardi nel 2012. C’è di più: a partire dal giorno maledetto dell’assalto alla nave Mavi Marmara, il 31 maggio del 2010, il commercio tra Israele e Turchia è aumentato del 35 per cento. L’unico effetto è stato sul turismo: prima di Flotilla, ogni anno 560 mila israeliani passavano le vacanze in Turchia, perlopiù in posti fetidi ricchi di discoteche e fast-food; adesso sono poco più di 60 mila. Tra pane e Hamas, molti proprietari turchi di pensioni turistiche preferiscono il pane.
Peraltro, la Turchia vanta un surplus esportativo verso Israele (esporta più di quanto non importi), per cui dar fastidio a un mercato in crescita – tra i pochi della regione – non è esattamente la strategia economica più indovinata. Le necessità economiche hanno spinto il Paese a rivedere anche i rapporti con la minoranza curda, un tempo preda imprescindibile di vessazioni tra le più creative – incluso il divieto di impiegare la lingua curda per le trasmissioni radio e tv. Se la pressione sui curdi si sta alleggerendo, è anche perché la Turchia sta cercando di agganciare le minoranze del Kurdistan presenti in Iraq. Da qui, grazie agli accordi federali sul petrolio conclusi dopo la guerra, la Turchia compra greggio senza passare per quell’immane caos rappresentato da Baghdad, e lo rivende direttamente ai curdi, o lo smercia per vie proprie.
La Turchia ha compreso poi che non può fare affidamento sulla Russia per risolvere la questione siriana, proprio perché Mosca ha forti interessi geostrategici nell’esito del conflitto. Sullo stesso piano, Ankara teme il rinsaldarsi della posizione iraniana nel quadrante, poiché il sostegno di Teheran a Hizbollah (nel Libano meridionale) rischia di destabilizzare la posizione israeliana, e con essa gli aspetti commerciali. Il sostegno russo al collegamento Iran-Hizbollah passa – non a caso – per la Siria, nel cui conflitto la Turchia sta cercando di avere un ruolo.
Alla fine, la Turchia deve fare affidamento sui suoi “nemici” Israele e Kurdistan per trovare la chiave che risolverà l’enigma della sua posizione in Medio Oriente. Ne ha bisogno politicamente ed economicamente, tanto più quando sono emersi i recenti dati preoccupanti sull’inflazione, esplosa oltre il 10 per cento. Nel timore della recessione, il partito islamista di Erdogan sta passando dalla moderazione al “progressismo”: i più critici ricordano i 20 mila esposti presentati alla Corte europea dei diritti umani dal 2008. Una strategia politica più realista potrebbe avvicinarsi meglio alla realtà economica del paese, e aiutare a evitare una recessione. Rimane da chiedersi se il governo di Erdogan sarà in grado di giustificare il proprio potere senza avere un nemico.