Per uscire dalla crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008 serviranno almeno 10 anni. A dirlo non è l’ennesima casa d’affari privata, bensì il capo economista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, durante un’intervista al giornale bulgaro Portfolio. Il nuovo mondo in cui si muove l’economia globale è tanto precario quanto senza guide. Di fronte al rallentamento dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina), alla crisi strutturale dell’eurozona e alle sfide economiche che attendono gli Stati Uniti, è l’incertezza a essere l’unica costante.
Senza bussola. Ecco lo stato in cui si trova l’economia globale. Dalla globalizzazione alla destrutturazione. E prima di ritrovare un equilibrio, di cui non si sa ancora quale sarà l’effettiva stabilità, occorreranno ancora circa 6 anni. In pratica, è come se l’intera struttura economica del mondo dovesse essere ripensata. Il principio è quello del cambio di paradigma. Come avvenuto durante la Rivoluzione astronomica, i cambiamenti che stanno avvenendo nell’economia mondiale saranno ricordati come storici fra diversi anni. Come rimarcava già nel 2008 il capo economista della banca anglo-asiatica Hsbc, Stephen King, «il mondo è mutato, è entrato in territori mai esplorati». Ed è vero. L’ultima fase di questo movimento tellurico è stata la rottura del meccanismo di trasmissione della politica monetaria della Banca centrale europea. Per stessa ammissione del presidente della Bce, Mario Draghi, l’ordinario ha lasciato il posto allo straordinario.
La realtà dei fatti sta evidenziando un elemento che finora solo in pochi hanno preso in considerazione. Da quando nell’agosto 2007 è iniziata la crisi finanziaria legata al mercato immobiliare statunitense, imbottito di mutui subprime, sono passati cinque anni. E prende sempre più piede che i subprime, il credito facile erogato dalla Federal Reserve, gli squilibri dell’universo finanziario statunitense e la disparità fra le economie globali non hanno fatto altro che accelerare un processo, quello della crisi del’eurozona. La strada era già segnata, come disse Romano Prodi in una lettera del dicembre 2001 al Financial Times, quando era presidente della Commissione europea. E come ha rimarcato un’analisi della Bank of Canada, «è pretestuoso dare la colpa al declino del mercato immobiliare statunitense per una crisi profonda come quella europea». Il risultato è che se fino alla primavera del 2010 il bailout di uno Stato dell’eurozona era considerato come puro elemento teorico, ora non è più così.
A questo scenario di ridefinizione dei limiti e di ripensamento dei modelli di sviluppo economico bisogna poi aggiungere il rallentamento fisiologico delle economie emergenti. Nel 2001 viene coniato il termine Bric da Jim O’Neill, chairman di Goldman Sachs Asset Management. Dopo dieci anni di crescita vigorosa, anche grazie a una regolamentazione meno oppressiva di quella occidentale e a una serie di incentivi fiscali che hanno aumentato il vantaggio competitivo di questi Paesi, si è arrivati a un punto di svolta. Basti pensare alla Cina. Se è vero che dal 2000 al 2011 il Pil cinese è cresciuto a un ritmo superiore all’8%, è altrettanto vero che la frenata della domanda aggregata e il ritracciamento del commercio internazionale stanno spingendo le banche d’investimento a rivedere al ribasso le stime di crescita per Pechino.
L’idea di Blanchard è che ora non ci son più scuse. Da un lato l’eurozona non ha ancora eliminato il rischio, cresciuto a iniziare dal 2010, con la prima richiesta di aiuto da parte della Grecia, di un collasso generalizzato dell’euro. Dopo Atene, sono arrivati i salvataggi di Irlanda, Portogallo e ora si sta trattando quello della Spagna, il più difficile sulla carta. Poi, forse, giungerà quello dell’Italia. La rete di protezione dell’Ue è quasi pronta: le Outright monetary transaction (Omt) della Bce per gli acquisti di bond governativi per le maturity più brevi, lo European stability mechanism (Esm) per quelle più lunghe. Ma non è ancora abbastanza. Le criticità che sta vivendo l’Europa, fra cui il riallineamento dei gap fra nord e sud, fra Paesi forti e Paesi deboli, hanno bisogno di un cambio di rotta lento e oneroso per essere superate.
Dall’altro lato ci sono gli Stati Uniti. Colpiti dalla crisi finanziaria, amplificata dal crollo della quarta banca di Wall Street, Lehman Brothers, stanno da tempo cercando di evitare il contagio della crisi dell’eurozona. Speranza vana, dato che l’America deve affrontare anche i problemi interni, come il Fiscal cliff. La fine degli sgravi fiscali introdotti dall’amministrazione di George W. Bush, unita alla riduzione della spesa pubblica che si è resa necessaria per adattare l’economia statunitense al nuovo mondo del dopo crisi, rischia infatti di essere ben più significativa della crisi europea. Secondo il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, in caso di stallo sul Fiscal cliff gli Usa rischiano una nuova recessione. Per ovviare alla propria crisi, ancora non terminata, la Federal Reserve ha usato tutte le carte che aveva nel proprio mazzo. Sono arrivati tre round di allentamento quantitativo, o Quantitative easing, più diverse altre misure che hanno spinto il chairman Ben Bernanke a scrivere nuovi capitali di teoria economica direttamente sul campo.
In mezzo c’è il sottobosco di economie, una volta emergenti e ora emerse, che stanno rallentando. Secondo la stessa Goldman Sachs che predisse l’irrefrenabile espansione economica negli ultimi dieci anni, la Cina ha dimostrato di essere troppo opaca. «Bilanci societari oscuri, dati sulla crescita modificati dal governo centrale e squilibri macroecomici: ecco il mix che ha contribuito alla Cina di arrivare vicino all’essere la prima economia mondiale», ha scritto nel corso del 2010 la banca americana Morgan Stanley. E come Pechino, anche gli altri Bric stanno registrando problemi. Il contagio delle due crisi, americana ed europea, sta influenzando, e amplificando in alcuni casi, le criticità dei singoli Paesi. Data l’interconnessione dei sistemi finanziari, come rimarcato più volte dal Fmi, nazioni che prima erano meno vulnerabili agli shock esogeni, ora lo sono di più. L’esempio più limpido si è visto con il collasso di Lehman Brothers, quando per via del Butterfly Effect, il congelamento dei mercati finanziari è stata quasi totale.
Uscire dalla crisi è possibile. Come per qualsiasi processo Boom-Bust, ovvero espansione incontrollata e relativo scoppio, si tornerà a un clima di equilibrio. Il problema è comprendere quando avverrà. Attualmente sono ancora troppo deboli i Mikt (Messico, Indonesia, Corea del Sud, Turchia), ovvero l’evoluzione dei Bric definita per la prima volta nel gennaio 2011 da George Magnus, per dieci anni capo economista della banca elvetica Ubs. E la nuova frontiera economica mondiale, ovvero Cile, Malesia, Mongolia, Thailandia e Vietnam, è ancora troppo instabile per poter trainare fuori dalla crisi le economie in difficoltà. Il tutto senza contare i giochi di potere dei Paesi occidentali, che non vogliono essere messi in secondo piano nelle istituzioni che contano, come Fondo monetario internazionale, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, Banca mondiale. Anche alla luce di questo, basteranno dieci anni, fra 2008 e 2018, per arrivare a un nuovo punto di equilibrio? Si spera di sì.