Non solo disoccupazione, Obama rischia anche per la politica estera

Non solo disoccupazione, Obama rischia anche per la politica estera

Un murale ormai scolorito della trionfale campagna elettorale di Obama del 2008

Quando il candidato repubblicano Mitt Romney ha vinto il primo dibattito televisivo contro Barack Obama, lo scorso 3 ottobre, i commenti sono stati unanimi: il presidente è apparso stanco, svogliato, ormai privo di quella capacità di comunicare una “visione per il futuro” che ne aveva decretato il successo quattro anni fa. L’amministrazione attuale deve giocare in difesa: troppo alta è la disoccupazione, troppo preoccupanti sono le notizie dall’estero – dal Mar della Cina, all’Iran, alla Libia – perché Obama possa indossare ancora una volta gli abiti messianici degli esordi. La sconfitta di Obama ha adesso anche dei numeri: Romney ha recuperato nei sondaggi e adesso la coppia prosegue appaiata al 48% dei consensi, secondo un sondaggio della Rassmussen.

È bastato un dibattito perché il repubblicano potesse completare il suo percorso d’inseguimento. Ancora nello scorso febbraio, Obama aveva un vantaggio di sei punti percentuali. La situazione ha iniziato a farsi ingarbugliata verso aprile, a causa principalmente delle notizie incerte provenienti dal mercato del lavoro. Ancora pochi giorni prima del dibattito, il New Yorker riportava soddisfatto la notizia che «la mappa degli stati americani si sta spostando verso i democratici». Adesso la situazione è cambiata: la società di indagini di mercato Gallup individua perfino un vantaggio di Romney (49% contro il 47% di Obama), così come Pew Research (49% contro 45%). La media di tutti i sondaggi, presentata dal sito Real Clear Politics, segnala un vantaggio di Romney dello 0,7%.

Il secondo e il terzo dibattito televisivo saranno dedicati rispettivamente alla sicurezza domestica e nazionale, e alla politica estera. Si terranno il 16 e il 22 ottobre. Il primo di essi avrà il formato del “town hall meeting”, in cui i cittadini rivolgeranno direttamente domande ai candidati, e ciò potrebbe andare a favore delle doti comunicative di Obama. Il problema è il contenuto: la politica estera era un settore sul quale il presidente aveva puntato molto per il suo primo mandato, e il suo disegno vacilla pesantemente sotto i colpi dei fatti internazionali.

Sulla politica estera le rielezioni per il secondo mandato si perdono, non si vincono; e Obama è a rischio. Il suo operato fuori dai confini americani non è piaciuto agli elettori democratici perché è stato considerato troppo repubblicano, e non è piaciuto ai repubblicani perché, insomma, pur sempre di un democratico si tratta. Le azioni di Obama sono state degne di un repubblicano dei tempi migliori. Durante il suo mandato, Obama ha aumentato di sei volte gli attacchi di droni in Pakistan rispetto a quanto non avesse fatto George W. Bush; ha triplicato il numero di truppe presenti in Afghanistan; non ha chiuso Guantanamo e ha autorizzato l’uccisione di un cittadino americano (Anwar al-Awlaki) in Yemen perché sospettato di cooperare con Al Qaeda; sempre in Yemen ha autorizzato l’impiego di droni e l’invio di forze speciali SEAL del team 6.

C’è inoltre il problema dell’Iran. Nonostante tanti tentativi di riavvicinamento, i persiani sono andati dritti per la propria strada nucleare, costringendo nel contempo l’amministrazione di Washington a litigare con il governo israeliano, che avrebbe voluto una posizione più ferma da parte di Obama. Il presidente americano si è detto d’accordo a un aumento delle sanzioni economiche, visto che la moneta iraniana si è già svalutata di un buon 80% rispetto al dollaro. Sembra poi che siano in corso nuovi contatti con Gerusalemme per “attacchi mirati” contro le istallazioni nucleari. Forse, a convincere Obama è stato il fatto che l’Iran di recente abbia iniziato a rifornire Hezbollah di droni da ricognizione – l’ultimo è stato abbattuto sul Negev questa settimana – e di certo la notizia non fa piacere.

Ma come potrebbe mai Romney cambiare il corso degli eventi? La sua intenzione dichiarata per la Siria, per esempio, è quella di sostenere “le forze che la pensano come noi”. Obama già sostiene “à la Brzezinski” le milizie ribelli, nello stile dell’Afghanistan sovietico con i mujaheddin. Il problema siriano è che le fazioni ribelli sono centinaia (si stima tra cento e ottocento), con convinzioni che spaziano da blando secolarismo al terrorismo islamista. Anche contro l’Iran, Romney vorrebbe aumentare le sanzioni – che è poi la politica di Obama.

A questo punto, nei dibattiti televisivi è difficile che il repubblicano Romney possa dimostrarsi più repubblicano di Obama. Al contrario di altri mandati democratici, come soprattutto quello di Bill Clinton, Obama si è rivelato straordinariamente interventista. In un discorso tenuto lunedì 8 ottobre al Virginia Military Institute, Romney si è limitato a sottolineare il fallimento della politica estera di Obama: ha criticato i risultati, ma non i mezzi. Ha ricordato che “gli attacchi [in Medio Oriente] non possono essere addebitati a un video discutibile che insulta l’Islam, nonostante i tentativi dell’amministrazione di convincerci di questo per lungo tempo”. I dibattiti serviranno a Romney solo per attaccare Obama, e non per fare proposte – le quali saranno elencate nei discorsi a margine, per evitare dibattiti permeati da “l’ho detto prima io” in stile litigio da Pd nostrano. Ancora una volta, Obama dovrà giocare in difesa.
 

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