Perché il Papa ha rimosso il vescovo anti preti pedofili?

Perché il Papa ha rimosso il vescovo anti preti pedofili?

“Amoveatur sine promoveatur”. Si è conclusa così la carriera vaticana di monsignor Charles J. Scicluna, 53 anni, fino a ieri “promotore di giustizia” della congregazione per la Dottrina della fede, una sorta di procuratore generale dell’ex Santo Uffizio. Cordiale, una statura proverbialmente piccola, il prelato maltese si è dimostrato, in tutti questi anni, un grand’uomo. Era il funzionario della Santa Sede che perseguiva i preti pedofili. E lo ha fatto – a differenza di altri, in Vaticano e fuori – con determinazione, umanità e senza tentennamenti diplomatici. È stato lui a gestire il dossier del sacerdote messicano Marcial Maciel, il defunto fondatore dei Legionari di Cristo. Pedofilo seriale, tossicomane, padre di tre figli illegittimamente avuti da due donne diverse, abusò – è l’accusa – anche dei figli. In Vaticano, all’epoca di Giovanni Paolo II, era benvenuto e riverito. Portava vocazioni e donazioni. Solo un cardinale – lo ha rivelato il giornalista americano Jason Berry in una straordinaria inchiesta giornalistica – rifiutò la mazzetta.

Joseph Ratzinger. Salito sul trono petrino, Benedetto XVI riuscì finalmente ad aprire l’indagine canonica che era stata insabbiata negli anni precedenti. E la affidò a mons. Scicluna. Alla fine padre Maciel fu estromesso, i Legionari di Cristo commissariati. Questo e molto altro ha fatto il prelato maltese. Nel 2010 si trovò in prima linea di fronte allo scandalo degli abusi sessuali sui minori scoppiato, a macchia d’olio, nelle chiese dei Paesi più disparati, Irlanda, Germania, Belgio, Olanda, Austria, di nuovo Stati Uniti, dove il caso era già esploso nel 2002, Australia, America Latina… e Italia. Scicluna, di nuovo, non le mandò a dire. Spalleggiato da Ratzinger, chiese agli episcopati più renitenti di collaborare con la giustizia civile per denunciare i preti pedofili. Lo fece anche, con veemenza, in un incontro a porte chiuse del bel convegno alla Pontificia università Gregoriana di cui ho riferito nel mio blog. Fu sempre Scicluna a mettere la faccia, insieme al portavoce vaticano Federico Lombardi, in un’affollatissima conferenza stampa in Vaticano per presentare il giro di vite della normativa canonica voluto dal Papa per contrastare la piaga della pedofilia. Partita nella tensione, la conferenza stampa si sciolse grazie alle risposte puntuali di Lombardi e Scicluna.

Monsignor Charles J. Scicluna, 53 anni

In Vaticano – fu l’impressione pressoché unanime dei giornalisti accreditati – c’è chi ha finalmente preso sul serio il dramma. Il procuratore generale della Santa Sede non schivò le polemiche. In una arcinota intervista concessa nel 2010 al quotidiano della Cei Avvenire, senza mezzi termini, affermò: «Ciò che mi preoccupa è una certa cultura del silenzio che vedo ancora troppo diffusa nella Penisola». Apriti cielo. Il Vaticano attacca la Cei. Passa qualche mese, la Santa Sede chiede a tutti gli episcopati del mondo di compilare nuove linee-guida anti-pedofilia e consegnarle entro maggio scorso. La Cei nicchia, pubblica un documento minimale, e Scicluna, di nuovo lui, alza la voce. Lo fa in una coraggiosa intervista al mensile Jesus di cui ho riferito nel mio blog. Non se la prende solo con l’Italia. Dice che molte linee-guida ancora mancano all’appello. Spiega che alcuni dei documenti recapitati in Vaticano sono insufficienti. Ieri, sommersa dal rumore della conclusione del processo al maggiordomo del Papa, la notizia clamorosa (anticipata il giorno prima da Vatican Insider). Mons. Scicluna è stato nominato vescovo “ausiliare” di Malta. Non promosso in Curia, non vescovo titolare, neppure coadiutore con il diritto alla successione. Da responsabile del team anti-pedofili della Chiesa cattolica mondiale e funzionario di basso rango a La Valletta. Rimosso senza essere stato neppure promosso.

La Santa Sede non ha spiegato la decisione. Che è – beninteso – una decisione del Papa. Ovviamente non sappiamo se aveva buoni motivi per rimandare Scicluna a Malta. Ma la mossa sconcerta. Così come lascia interdetti l’epilogo di una vicenda completamente diversa. La trattativa con i Lefebvriani. Lungi da me rammaricarmi del fatto che, alla fine, gli ultratradizionalisti non rientreranno in seno alla chiesa cattolica. Non si può non rilevare, però, che a questo obiettivo Ratzinger, negli anni scorsi, ha lavorato strenuamente. Era – come il contrasto alla pedofilia – uno dei tratti caratterizzanti di questo pontificato. Strategia sovrana. Linea di governo. Parte di un disegno più complesso, a cui Benedetto XVI si è dedicato sin dall’inizio, teso a reinterpretare il Concilio vaticano II e la sua eredità. Anche qui, come nel caso della pedofilia – e per motivi affatto diversi – Ratzinger è stato contestato, da personalità di Curia e episcopati nazionali, funzionari vaticani e osservatori esterni. Alla fine, i Lefebvriani non entreranno. Il nuovo prefetto della Dottrina della fede, mons. Gerhard Ludwig Mueller, ha annunciato, alla vigilia del cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio, che non ci saranno ulteriori trattative. Punto, finito, tempo scaduto. Mons. Guido Pozzo, triestino, uomo di fiducia di Ratzinger nel negoziato durato anni, è già destinato a lasciare il posto di segretario della pontificia commissione Ecclesia dei per divenire cerimoniere pontificio. Un altro capitolo del pontificato Ratzinger si chiude.

E si chiude mentre viene condannato, con pena “mite” di diciotto mesi di reclusione che verranno presto condonati dalla grazia papale, il maggiordomo Paolo Gabriele. Personalità complessa, mosso dall’intento delirante di aiutare il Papa tradendone la fiducia. Facendo filtrare ai giornalisti italiani – e in particolare a Gianluigi Nuzzi, che ne ha fatto il bestseller Sua Santità – documenti riservati della Santa Sede e dossier personali del Papa. Colpisce, di tutta la vicenda, il movente addotto dall’ex assistente di camera del Pontefice. «Vedendo male e corruzione dappertutto nella Chiesa, sono arrivato negli ultimi tempi, quelli della degenerazione, ad un punto di non ritorno. Ero sicuro che uno choc, anche mediatico, avrebbe potuto essere salutare per riportare la Chiesa nel suo giusto binario», ha detto nell’istruttoria. Poi, nella deposizione durante il processo: «A volte, quando sedevamo a tavola, il Papa faceva domande su cose di cui doveva essere informato». Ancora: «Ho maturato la convinzione che è facile manipolare la persona che ha un potere decisionale così importante». E infine, nella testimonianza conclusiva che ha reso ieri prima della sentenza: «La cosa che sento forte dentro di me è la convinzione di aver agito per esclusivo amore, viscerale direi, per la Chiesa di Cristo e per il suo capo visibile. È questo che mi sento. E se lo devo ripetere, non mi sento un ladro». Propositi deliranti. Evocati, suggeriti, inculcati, molto probabilmente, dalle tante persone con cui Paolo Gabriele parlava ogni giorno. Uscieri, cittadini vaticani, monsignori, cardinali. Nessuno si è spinto tanto in là da trafugare documenti e rivelare segreti di Stato. Ma tutti convinti della stessa cosa. Che il Papa è rimasto solo.

*Originariamente pubblicato, oggi, sul suo blog su Linkiesta

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