Quando il pm sta con l’imputato (se l’imputato è Gifuni, ex segretario del Quirinale)

Quando il pm sta con l’imputato (se l’imputato è Gifuni, ex segretario del Quirinale)

È stato uno dei magistrati di punta e più agguerriti del pool Mani Pulite nei primi anni Novanta, quando giunse a definire Bettino Craxi “un criminale matricolato” e si presentò nel Palazzo di giustizia di Roma per raccogliere le prove della corruzione dei colleghi coinvolti nelle vicende Sme, Imi-Sir e Lodo Mondatori. Oggi Paolo Ielo, pubblico ministero proprio nella Procura capitolina ed esperto di reati economici e contro la pubblica amministrazione, critica la linea interpretativa per tanti anni assunta dal team guidato da Francesco Saverio Borrelli nel disvelare e nel perseguire l’illegalità di Tangentopoli, durante la propria requisitoria in un processo di grande rilevanza che vede tra gli imputati un grand commis dello Stato: l’ex segretario generale della Presidenza della Repubblica Gaetano Gifuni.

Al centro del suo intervento e dell’attenzione dei giudici dell’ottava Sezione penale del Tribunale è la vicenda della presunta appropriazione illegittima, fra il 2002 e il 2008, di diversi milioni di euro pubblici destinati dal Quirinale e dal ministero dell’Ambiente all’amministrazione della tenuta presidenziale di Castelporziano. Appropriazione che, in base alla tesi dell’accusa, sarebbe stata portata a compimento ad opera dei principali amministratori della residenza, Luigi Tripodi, in quegli anni a capo del Servizio giardini del Colle e nipote di Gifuni, e Alessandro De Michelis, all’epoca direttore della riserva naturale situata sul litorale laziale. Entrati in possesso delle enormi risorse stanziate dall’Erario per soddisfare bisogni e interessi personali, i due amministratori avrebbero messo in atto ulteriori reati penali che comprendono la truffa, l’abuso d’ufficio, il falso ideologico e materiale.

Analizzando in primo luogo la posizione di Tripodi e i benefici che egli riuscì a ottenere nel corso del suo incarico al Quirinale, i magistrati inquirenti avevano ricostruito i contorni e le dimensioni dello scandalo, allargando il campo di indagine ad altri personaggi, fra cui lo stesso Gifuni, Paolo Di Pietro, uno dei due tesorieri della residenza, e il funzionario Giorgio Calzolari, tutti coinvolti nel processo. Ma è qui che arriva la svolta impressa dal rappresentante dell’accusa nel corso di un’udienza cruciale, che ha rinviato l’esame delle responsabilità di Tripodi a fine novembre e si è soffermata con attenzione sulla figura degli altri imputati.

A partire dall’ex cassiere Di Pietro, per il quale il pm chiede senza indugio l’assoluzione piena per l’insussistenza del fatto, “visto che tutti i testi ascoltati e i riscontri valutati in aula hanno dimostrato la sua completa estraneità dall’accusa di avere preso denaro”. È vero che l’uomo non denunciò i propri capi, responsabili del peculato, come rivelò in una lettera a un amico sacerdote, ma ciò è dovuto alle regole che all’epoca presiedevano ai rapporti interni agli organi costituzionali e a istituzioni indipendenti come la Banca d’Italia e la Consob. “Nessun dipendente poteva infatti rivolgersi direttamente alla magistratura se ravvisava anomalie o irregolarità, ma aveva l’obbligo di fare riferimento ai suoi superiori gerarchici, in quel caso esattamente coloro che avevano approntato il piano criminoso”. Rimarcando la speciale natura che governa le relazioni professionali nelle più alte magistrature repubblicane, il pubblico ministero avanza la stessa richiesta assolutoria per Calzolai, “funzionario che pure si era reso conto delle numerose illegalità compiute e aveva intenzione di denunciarle, ma che neppure doveva essere presente nel processo”.

Completamente estraneo all’imputazione di essersi impossessato dei fondi di cassa di Castelporziano e di avere preso parte alla loro spartizione illegale falsificando i bilanci e i rendiconti trasmessi ogni anno al Colle, Gaetano Gifuni doveva rispondere di truffa, abuso d’ufficio e peculato, per il ruolo che avrebbe esercitato nell’assegnare al nipote una villa abusiva nel cuore della tenuta e per i lavori che vennero eseguiti da operai della residenza presidenziale nella sua abitazione privata a Roma. A giudizio dell’accusa, l’ex segretario generale del Quirinale deve essere prosciolto per tutto ciò che concerne la vicenda dell’alloggio destinato a Tripodi. Perché “il convincimento dei colleghi e amici della Procura di Milano, secondo cui l’imputato di un reato grave non poteva non sapere” non trova d’accordo Paolo Ielo.

Oggi, spiega il sostituto procuratore per tanti anni in trincea nella lotta contro i reati dei “colletti bianchi” e contro la corruzione nei pubblici uffici, è doveroso attenersi unicamente all’evidenza dei fatti e al dettato della legge, “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Le prove acquisite nel corso del dibattimento e nei lunghi interrogatori dei testimoni escludono la fattispecie della truffa, “poiché mancano del tutto gli artifizi concepiti per ingannare e indurre in errore altre persone e per ottenere un vantaggio economico dal raggiro”. Ed eliminano anche qualunque traccia di abuso d’ufficio: “È difficilmente immaginabile e plausibile che per 13 lunghi anni, dal 1993, quando Tripodi fu designato alla guida del Servizio giardini e residenze presidenziali, al 2006 quando Gifuni abbandonò definitivamente il Quirinale, che l’ex Segretario generale abbia agito deliberatamente e continuamente per favorire il nipote nell’assegnazione della villa di Caselporziano”.

L’esistenza della sua firma nel documento che affida l’appartamento a Tripodi è semmai “segno di una gestione disinvolta e ingenua dell’alta funzione ricoperta, non certo di una precisa responsabilità penale”. Parole accolte con soddisfazione dalla difesa di Gifuni, rappresentata dall’avvocato romano Maurizio Bellacosa, il quale si spinge oltre ed esclude ogni tipo di influenza positiva esercitata dal grand commis dello Stato sulla carriera del nipote negli uffici presidenziali: “Nel 1993 Tripodi aveva maturato i requisiti per assumere la guida del Servizio giardini e tenute, e in quella veste aveva pieno diritto all’attribuzione di un’abitazione in loco”. L’errore, rileva il legale, consiste nell’avere individuato quel genere di villa, certamente inadatta a una finalità di servizio pubblico: “Ma la firma apposta da Gifuni su un testo messo a punto da altre persone era un atto quasi notarile e residuale”.

Le ragioni di consonanza tra difesa e accusa sul ruolo dell’alto funzionario però si arrestano qui. Perché Gifuni è accusato di peculato e abuso d’ufficio per i lavori di ristrutturazione effettuati nel suo appartamento privato di Via Valadier nell’estate del 2006 grazie all’intervento di alcuni operai dipendenti della tenuta di Castelporziano. Maestranze che in realtà furono chiamate a eseguire i lavori dal nipote, in un momento in cui lo zio non abitava più al Colle dopo la conclusione della sua decennale carriera nelle istituzioni. È proprio l’ideazione e la rilevanza economica di quei lavori, agli occhi della difesa, a costituire la prova più tangibile dell’inconsistenza dei reati sostenuti dal pm a carico di Gifuni. Si trattò, puntualizza Bellacosa, di attività di falegnameria assai limitate, ridotte alla riparazione di una tettoia parasole pericolante, all’acquisto di un piccolo tavolino e alla collocazione di uno “scheletro di armadio a muro” costituito da materiali di scarto presenti nei magazzini di Castelporziano.

“Interventi dunque di assoluta emergenza, per mettere in sicurezza la casa all’inizio dell’estate, quando mancava il falegname di fiducia dell’ex Segretario generale, che si limitò ad accettare in buona fede l’offerta di opere di manutenzione domestica da parte di Tripodi”. Il tutto per un valore complessivo di 1.500 euro. Cifra assai lontana dai 4 milioni di cui sarebbe entrato in possesso Tripodi, e che secondo il legale “non può giustificare in alcun modo la gravità quantitativa e qualitativa del danno erariale previsto dal legislatore e dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione per configurare il reato di peculato”. Una somma, evidenzia l’avvocato, che palesemente rivela l’assenza di dolo e intenzionalità nell’abusare del ruolo pubblico per provocare un danno finanziario significativo nei confronti della collettività.

Se avesse voluto davvero compiere tali crimini, chiede al collegio giudicante il difensore di Gifuni, una personalità con una lunga militanza istituzionale ai più alti livelli si sarebbe limitata a lavori di falegnameria per poco più di un migliaio di euro? L’interrogativo tocca il cuore dell’impianto accusatorio e illumina la posizione complessa e sofferta del pubblico ministero. Il quale procede lentamente e pesa le parole nel ricostruire “una logica dei fatti dura e incontrovertibile, imposta dai confini rigorosi ancorché discutibili delle leggi in vigore”. Nel valutare i reati contro la pubblica amministrazione, osserva il magistrato, non esiste la nozione di “modica quantità”, non si deve valutare l’entità economica-pecuniaria del danno prodotto: “È un fatto che maestranze impegnate in un’istituzione dello Stato siano state coinvolte in mansioni di manodopera all’interno di un appartamento privato. E ciò è grave indipendentemente dal suo costo monetario”. Perché ad essere in gioco è “l’eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, soprattutto se sono alti rappresentanti delle istituzioni, sia pure trascinati nel terreno dell’illegalità da un nipote”. Ragione per cui, suo malgrado, Paolo Ielo chiede per Gaetano Gifuni una condanna a due anni e un mese di reclusione.

La prossima tappa del processo è fissata per la fine di novembre, quando il pm svolgerà una nuova requisitoria tutta focalizzata sulla figura di Luigi Tripodi, più che mai l’imputato chiave dell’intera vicenda. Un uomo che, “in una realtà interamente permeata di una dimensione pubblicistica, alimentata dalle risorse pubbliche, incarnata da funzionari pubblici, dominata da regole, controlli e bilanci pubblici, agiva come un dominus incontrastato, in grado di disporre arbitrariamente di persone, denaro, mezzi e comportamenti per realizzare interessi privatistici e personali. Un personaggio capace di minacciare con il proprio potere gli operai e le loro famiglie se non avessero attuato i suoi ordini, e di esautorare le prerogative del direttore della tenuta presidenziale De Michelis, “costretto a muoversi come un vaso di coccio contro un vaso di ferro”. Al punto di “prendere parte all’appropriazione di cassa e al peculato, sia pure in misura minore rispetto al principale imputato, e di contrattare e definire i lavori nella villa di Caselporziano assegnata a Tripodi”. Se per l’allora direttore della residenza la richiesta di condanna arriva a due anni e otto mesi di carcere, per gli avvocati del nipote di Gifuni la partita decisiva, che appare assai ardua, è ancora da giocare.  

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