Quando nacque il mito di Milano “capitale morale”?

Quando nacque il mito di Milano “capitale morale”?

Capitale morale: un premio di consolazione. Siccome la capitale vera era stata messa a Roma, alla città più industriosa d’Italia non restava altro che la medaglia di latta, simile a quella della “vittoria morale” che nel 1934 avrebbe assegnato Nicolò Carosio all’Italia sconfitta con onore dai maestri inglesi del calcio.

Milano, per un breve tratto della sua storia, diventa capitale davvero. In epoca napoleonica, nel ballottaggio tra Venezia e Milano, i francesi non hanno dubbi: tra la capitale di una repubblica durata oltre un migliaio d’anni e la sede di un ex governatorato spagnolo, ci mettono un amen a decidere chi debba abbassare la cresta. La contessa vicentina Ottavia Negri Velo nel 1806 scrive così: «La gara tra Milano e Venezia sembra dichiarata. Milano è una provinciaccia che ha sempre ubbidito, Venezia è una capitale in cui il dominio è originario». Proprio per questo il vicerè d’Italia, Eugène de Beauhrnais, ovvero il principe Eugenio, preferisce Milano come capitale del Regno d’Italia. Le istituzioni centrali vengono spostate in Lombardia: la nuova banca di Stato, il Monte Napoleone, assorbe il veneziano Banco Giro, che viene costretto a chiudere. Ma anche l’Accademia di Brera si avvale di una regalia di opere di celebri pittori veneti, spostate d’imperio dalla laguna ai navigli. 

Gli Asburgo replicano: hanno combattuto la Serenissima per mezzo millennio (salvo brevi parentesi, tipo Lepanto e le guerre contro i turchi di fine Seicento), hanno fatto di Trieste un porto franco per sottrarre all’ormai decaduta repubblica il dominio sull’Adriatico, e ora, riusciti finalmente a mettere le mani sullo spennato leone di San Marco, è ovvio che come capitale del Lombardo-Veneto, gli preferiscano Milano, che oltretutto era città dei loro cugini spagnoli.

Assaporato il gusto del comando, Milano viene retrocessa dai Savoia. Ma ormai la città si è avviata sulla via dell’industrializzazione, è l’unico centro italiano legato da «un cordone ombelicale all’Europa», come disse lo storico Renzo De Felice che aggiunse: «Milano rappresenta un’instancabile incubatrice del nuovo che nasce nel Paese». Giovanni Verga la definisce «la città più città d’Italia».

La consacrazione definitiva arriva con la Fiera industriale (oggi diremmo Expo) del 1881 quando Milano si mette in vetrina. La definizione di “capitale morale” sembra essere più o meno di quel periodo, assegnata oltretutto da un napoletano, Ruggero Bonghi, che in quegli anni dirigeva il quotidiano milanese La Perseveranza. Il successo (della definizione) è virale: va bene a tutti, ai milanesi per consolarsi, ai romani per consolarli. Come scriveva Guido Lopez «la mostra avvalorava l’operosità alacre di una città che si proclamava con orgoglio consapevole “capitale morale d’Italia”. Traduzione moderna del vecchio proverbio popolare Milan dis, e Milan fa. Renzo De Felice però non era d’accordo: «L’Italia ha solo due capitali: Napoli e Palermo», le uniche che ricordano Parigi, Madrid, Vienna, come sottolineò lo storico.

Tuttavia Milano sembra effettivamente diventata una fucina non solo industriale. Roberto Sacchetti, nel suo La vita letteraria a Milano nel 1880 la butta sull’etica: «A Milano non si commette la ridicolaggine di chiamare il conte Maffei, il cavaliere Boito, il cavaliere Ponchelli, il cavaliere Verga. Si dice Boito, Verga… e si crede di dir molto». Ognuno è considerato per quel che fa, insomma, non per quel che è. Dice Gaetano Salvemini: «Quello che oggi pensa Milano, domani lo penserà l’Italia». La città sembra voler pungolare un’Italia che ha voluto, che ha contribuito a costruire, ma che non è come avrebbe dovuto essere. Luigi Albertini schiera il quotidiano più influente del Paese, il Corriere della Sera, su posizioni interventiste, in contrapposizione al neutralismo del piemontese Giovanni Giolitti. E il fascismo sarà una faccenda tutta milanese: Benito Mussolini direttore de l’Avanti!, con sede in città, frequenta la casa milanese di Filippo Turati e Anna Kulishioff, dove conosce e diventa amante della veneziana Margherita Sarfatti che gli inculcherà il mito della romanità. Ed è nella milanese piazza San Sepolcro che il futuro Duce fonda i Fasci italiani di combattimento, il 23 marzo 1919.

Il mito continua anche nel secondo dopoguerra, quando Milano diventa più che mai l’ombelico dell’Italia industriale, il centro dell’immigrazione (qualora si eccettui la Fiat). I primi ad arrivare sono i veneti, da allora qualificati con l’aggettivo di “terroni del Nord), seguono i siciliani, i pugliesi e tutti gli altri. Recita un proverbio: “Chi ghe volta el cü a Milan, ghe volta el cü al pan” (chi gira il culo a Milano, gira il culo al pane).

Per parecchi anni la città vive una crisi di rappresentanza politica: la “capitale morale” conta relativamente poco nei palazzi del potere romano, dove non brilla un astro meneghino di prima grandezza fino all’avvento del socialista Bettino Craxi. Ma ormai siamo negli anni Ottanta e il mito comincia a offuscarsi. Alla “Milano da bere” immortalata, verso la metà del decennio, in un celeberrimo spot pubblicitario dell’amaro Ramazzotti, si contrappone la “Duomo connection”, un’inchiesta giudiziaria promossa tra il 1989 e il 1990 dal pubblico ministero Ilda Boccassini (ebbene sì, proprio lei) e attuata dal celeberrimo capitano Ultimo (al secolo Sergio De Caprio, capitano dei carabinieri). Un paio d’anni più tardi esplode Tangentopoli e l’effetto collaterale è l’entrata in scena di un altro milanese che avrebbe segnato parecchio la vita politica italiana: il cavalier Silvio Berlusconi. E tra “Berlusconi” e “morale” la contrapposizione è definitiva.

Per approfondire:

Il mito della capitale morale

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