L’agente MormoraSandy non risparmia Long Beach, resta qualche brandello di muro

Sandy non risparmia Long Beach, resta qualche brandello di muro

L’isola del giorno dopo non è più la stessa: a malapena è, nel senso di “esiste”. Quel disastro col nome di musica, Sandy, si è fatto beffa della nostalgia salata di Long Beach Island. L’ha attraversata con violenza, sollevando le onde e le palafitte, spingendo l’oceano fin dentro le ossa scalcinate di quest’isoletta oggi invertebrata. A guardare dal satellite quello sciabordio circolare di nuvole e flagello, ci si rimette la salute; solo una mail manderei in questi momenti: a papa Ed, il decano del quartiere di Loveladies, per chiedergli se la lavanda che avevamo sistemato insieme sia ancora intatta, magari infreddolita e comatosa, ma disposta a sciropparsi un inverno gelido pur di profumare l’anno prossimo uguale spiccicata a quando l’avevamo sparpagliata per le stanze e gli armadi. È in Messico a spassarsela, Ed, chissà quando mi risponderà.

A LBI si incontra la East Coast che conta (poco o molto, a seconda della zona): sulle spiagge sconfinate del New Jersey si rilassano gli uomini d’affari che al lunedì si muovono lungo l’asse del dollaro New York-Washington. Si imbocca una strada tutta dritta, un tratto di squadra approvato dal geometra, e si rincorrono degli alberi che, d’improvviso, s’abbassano inspiegabilmente. E tutti, ma proprio tutti, a giurare che quello scherzetto è opera di un folletto, di un mostro, di un affare del genere. Non dell’argilla che sbriciola il terreno, lo sfarina in mille coriandoli e lo rende invivibile per un organismo dotato di radici, non della brezza dell’Atlantico che potrebbe aver spettinato nei secoli le chiome più alte, costringendo i rami posteri a crescere il meno possibile. Un folletto, ci piace credere che sia stato costui a sfoltire questa foresta senza fine che di spinge fin dentro il mare, squarciata da un lembo di asfalto tutto sommato discreto.

È un rettilineo consacrato allo shopping take away, al “vorrei ma posso” delle urgenze alimentari. Con i molluschi e le cozze venduti dentro gli chalet più improbabili, affrescati di fucsia e verde di una tonalità da evidenziatore, con delle sirenette finte eppure prosperose e quegli aggeggi buffi (che non saprei se esiste un nome per chiamarli, ma son di legno che ci infili la testa e, se ti scattano una foto, hai il corpo di un altro – un’aragosta, nella fattispecie). Con i barbieri di origine meridionale, Mezzogiorno d’Italia – sia chiaro, e l’insegna “open” rossa dentro un cerchio azzurro, e il parcheggio antistante abbastanza deserto: popolato, al massimo, da un vostro interrogativo impellente: chi mai si farebbe una messa in piega sull’autostrada che porta al mare? Hai visto mai che ci hai lo sghiribizzo di farti bello: è la risposta che ti aspetta accanto ad una boutique che dentro ti accorciano le unghie e te le pittano di rosa, con dei trattini di bianco smunto che potrebbero voler significare petali, a pensarci bene.

Il fine settimana di Long Beach Island è un elenco di morbidezza dei cinque sensi: un bagno in piscina, un aperitivo col formaggio al caramello, un barbecue tutti in cortile dall’avvocato, un gelato artigianale raccattato dal furgoncino con la musichetta. Se corri in direzione nord, verso la spiaggia: per l’appunto, vuol dire che è venerdì e che, senz’altro, è estate e non hai vacanze da giocarti. Se sei sulla corsia opposta, stasera è domenica: sei incolonnato sul ponte e ti conveniva partire un po’ prima.

Si fa una spesa colossale, all’andata, stipata a forza nel bagagliaio (i latticini e le verdure davanti «che almeno abbiamo l’aria condizionata su questa Mini»). Due ore di viaggio da Philadelphia, qualcosa in più da New York – c’è da dire che per un niuiorchese è un’esperienza piuttosto maldestra, ed i ricchi prediligono di gran lunga gli Hamptons. La spartizione dell’isola ha peraltro obbedito ad rigido criterio di censo: a sud gli umili, a nord i potenti. C’è da dire pure che ai ricchi non è che sia poi andata benissimo: hanno la fetta più sottile dell’isola, un mignolo di terra che – a traguardarla tutta da un lato all’altro – ci si mette il tempo di una traccia dei Killers pescata dalla riproduzione casuale, qualche minuto a piedi per raggiungere il mare dalla laguna e viceversa.

Quindi per annusarsi compiaciuti la puzza sotto il naso, alla domanda: «Dov’è che abiti a Long Beach Island?», basterebbe rispondere, avverbio in poppa: «Actually, I turn left». Perché, e qui sta il senso della svolta, c’è un incrocio al termine di quel rettilineo di cui si diceva. Chi gira a sinistra è uno sfigato, costretto a sorbirsi la tamarreide dei suoi concittadini newjersitani (sta effettivamente per spiaggiarsi in una specie di Rimini dell’Atlantico, solo meno fetente, solo senza tedeschi). Chi gira a sinistra, guappo da morire, ha un macchinone con ruote più alte di una segretaria.

Di Long Beach Island forse resta poco, ma è troppo presto per un’orazione funebre. Ci sono le foto degli elicotteri, i ponti interrotti ed un ordine di evacuazione. Se il faro sia ancora in piedi è presto per stabilirlo: di che materiale li fanno? Avranno tenuto conto dell’iradiddio? Non si sarà mica spento per sempre? La consanguineità che avvinghia ad un luogo è fatta di dubbi senza soluzione, di preghiere senza sollievo, di memoria senza presente. Restano balaustre divelte e baretti scoperchiati, ma anche ammassi di ville dove si è brindato alla salute di chi si godeva quella vista che, nelle notti di plenilunio, era di una bellezza accecante e, durante gli acquazzoni (tanti, troppi in agosto), ribolliva di una vita umida ed insieme bollente di inerzia.

Da una parte la laguna, zozza all’apparenza, coi bimbi che si tuffano dai pontili ridipinti freschi freschi, dall’altra l’oceano – tutto sommato nient’affatto dissimile da quel suo parente che ti avevano presentano in tempi non sospetti: il mare. Servono trenta dollari per garantirsi una spilletta annuale da indossare, pronti ad esibirla ai messi comunali che pattugliano le spiagge. In un tripudio di proibizionismo asfissiante che vien voglia di sequestrare il guardaspiagge tutto d’un pezzo ed instaurare la dittatura delle mollezze: “e niente alcolici sulla sabbia e niente tuffi oltre la boa rossa e tutti via che arrivano le zanzare killer e mamma mia quante storie per un bagno!” Dev’essere anche per questo che quelli del lato opulento preferiscono restare a mollo in piscina, a leggere dal kindle un libro elettronico che ha dato dignità di stampa alle grigie frustrazioni di un’attempata casalinga. Un’avventura narrativa che sarà pure miliardaria, ma disgustosa resta: un crimine contro la narrativa, impunito.

Corrono di gran carriera i mezzi anfibi dei pompieri, e si tuffano verso ovest dove c’è il diner più succulento d’America (una rivista di settore lo ha incoronato tale, e ci sono arrivate anche le telecamere di un programma culinario da leccarsi i baffi: appunto, nomina sunt consequentia rerum). Baffo Bill, il cassiere panzone, da vent’anni e passa serve omelette stipate di funghi e pancetta al mattino e pesce fritto per pranzo – conditi con una manciata di sensi di colpa che attraverseranno di corsa un corridoio, a lato della strada principale, che pare lo abbian costruito apposta per farci correre i pentiti, in bici o sui piedi.

Corrono con le sirene spente che non c’è nessuno da far scansare su un’isola deserta, i soccorritori, e l’acqua gli si infila dentro la stanchezza e la lava via. Si spiega ora la generosità della popolazione che, sotto al solleone, si metteva in fila per finanziare il nucleo di protezione civile del villaggio, in cambio di qualche gadget ed una sbiancata alla coscienza. Questa guerra contro i capricci della natura alla fine è chiaro che la perdiamo noi, quelli degli aperitivi e dei tuffi, però la buona creanza di lasciare intatto il ristorante dove si mangiano le ostriche più cheap di quel lembo di terra sfottuto tutto il tempo dalle onde, Sandy avrebbe potuto concedersela. Che mentre corre a far vittime a New York («Che sarà mai il disastro della villeggiatura, di fronte alla morte nella Grande Mela?»: direte voi), mentre ha l’ardire di piantare la punta del suo compasso maledetto nel centro del mondo, si ricordi almeno che il suo affronto ha risparmiato la bellezza: giunge voce, infatti, che LBI Foundation – luogo di ceramiche artistiche e laboratori di terrecotte e sciabolate di pennelli e quadri pastello – è fiera e tutta intatta.

Come se, infine, chi c’ha rimesso la villa: mai potrà rinunciare all’estate sull’Atlantico. Quando fra pochi mesi Sandy, tutto sommato, tornerà ad essere una cosa tra le più fascinose e inutili che ci abbia regalato la grammatica: un aggettivo. 

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