Se ne sono andati (due soldati nemici che si perdonano)

Se ne sono andati (due soldati nemici che si perdonano)

Eric Lomax

(1919 – 8 ottobre 2012)

Ex soldato dell’impero britannico sul fronte birmano, durante l’ultima guerra. Scozzese, di Edimburgo. Un uomo alto, con gli occhiali e pochi capelli bianchi e i baffi a spazzola: a poco più di 70 anni era così, fotografato all’imbocco di un ponte di ferro, con un libro quasi in primo piano, e affiancato a un uomo più o meno della stessa età, giapponese, stempiato, tinto, e che gli arriva sotto la spalla. Un dislivello d’altezza evidente. L’incontro fra i due è del 1993, il ponte e il fiume sottostante sono in Thailandia. Il fiume si chiama Kwai.

Poco prima di posare per la foto, il giapponese ha detto all’altro, a ripetizione: «I am sorry, I am sorry». Lo scozzese aveva aperto il meeting a due con un saluto non caloroso ma degno di certi tempi andati: «Buongiorno, signor Nagase, come sta?». In quel momento, il signor Nagase – già soldato dell’esercito imperiale giapponese sul fronte birmano, durante l’ultima guerra – tremava e piangeva.

Qualche ora prima di incontrarlo, lo scozzese, cioè Eric Lomax, era sicuro di uno stato d’animo: «Lo rivedevo senza nessuna simpatia». Due anni dopo, nel 1995, avrebbe dichiarato in un’intervista: «Per molto tempo ho pensato che avrei voluto ammazzarlo». Quasi mezzo secolo prima, nel 1942, era il signor Nagase Takashi il potenziale assassino dello scozzese. Più esattamente il suo torturatore diretto: gli aveva rotto le ossa, dopo averlo ingozzato di acqua in bocca e nel naso, perché era un nemico prigioniero, e perché lo aveva sorpreso a costruire una radiotrasmittente con avanzi di pezzi di ricambio militari.

Il quadro generale era chiaro e catastrofico: il Giappone dilagava in Oriente, i territori imperiali inglesi cadevano uno dopo l’altro, Hong Kong, Singapore, la Birmania. I campi di prigionia giapponesi erano inferni organizzati: torture, lavoro coatto, frustate, a volte decapitazioni con la spada. Lomax era un internato, con tutta la sua compagnia, nel campo adiacente al fiume Kwai, sul confine birmano-thailandese: uno dei più bei film di guerra, di resistenza, e di eccentrica ostinazione britannica, avrebbe raccontato la costruzione coatta di un pezzo di ferrovia su quel ponte, con gli inglesi ridotti a schiavi, e i giapponesi nel ruolo di aguzzini (“Il ponte sul fiume Kwai”, 1957, David Lean regista, e Alec Guinness supremo interprete). Eric Lomax sarebbe vissuto al di là dei 90 anni, con dentro tutti i resti di quel trauma e di quel tour de force ingegneristico e belluino.

I suoi lavori, o la sua biografia, successivi (il grado di capitano, gli studi di management, e alla fine un impiego come lettore all’Univesità scozzese di Strathclyde) non toglievano il primo posto a una fantasia ostinata: ritrovarsi di fronte al signor Nagase. Lo avrebbe stanato, dopo una paziente raccolta di informazioni: il primo lavoro postbellico dell’adattabile ex torturatore giapponese, era stato quello di interprete per gli angloamericani nella ricerca delle lapidi di tutti quei prigionieri morti di sfinimento, o ammazzati, durante il lavoro sul fiume Kwai. L’incontro sarebbe potuto avvenire anche per una particolarità: il giapponese aveva pubblicato un articolo-confessione sul suo senso di colpa verso uno specifico soldato inglese da lui torchiato senza pietà.

E così, in una giornata indocinese del 1993, si rivedevano, dopo 50 anni, due militi ignoti (fino ad allora), sopravvissuti, e vivi abbastanza per mettere alla prova la memoria della botta e le sensazioni postume: dopo il pianto d’esordio del signor Nagase, e le comprensibili formalità freezer del signor Lomax, poche frasi, nei giorni successivi, chiarivano quanto i concetti di “pentimento” e di “perdono” siano un po’ più complessi del loro significato immediato, della retorica del lieto fine, e anche dell’elaborazione del trauma.

L’ex internato scozzese, in particolare, ha puntato sulle sorprese della vita e sui passaggi individuali: «Nagase ha avuto, dopo la guerra, i miei stessi problemi psicologici e di carriera. Non ho assolto, né assolvo, il Giappone, ma solo lui, per come si è pentito. Personalmente». Quel libro, quasi in primo piano nella foto di quel reincontro, si chiama “The Railway Man”, ed è uscito nel 1995: è la storia personale di Eric Lomax, e la storia reale del ponte sul fiume Kwai. 

Teresa Szwarc Torres

(3 settembre 1920 – 4 ottobre 2012)

Scrittrice francese, parigina, con genitori polacchi ed ebrei, diventati cattolici praticanti. Aveva fatto i suoi studi dalle suore, e poi, a poco più di 20 anni, aveva seguito le forze della Francia Libera, a Londra: era una delle segretarie al quartier generale di Charles de Gaulle, a Carlton Gardens. Sarebbe diventata una resistente e una soldatessa nelle caserme britanniche dei francesi (e delle francesi) liberi. Avrebbe anche scritto in inglese, e pubblicato in America, un libro-best seller (4 milioni di copie nel 1950, e traduzioni in 13 lingue) messo all’indice due volte: dal comitato che selezionava i “materiali pornografici” negli Stati Uniti, e da una Corte distrettuale canadese, a Ottawa, che giustificava il bando con un’interpretazione di questo tipo: «Non c’è nient’altro che una successione di oscenità dall’inizio alla fine».

Il libro, “Women’s Barracks” (caserme femminili), viene ancora citato come la prima pulp novel lesbica della letteratura mondiale, ma Tereska si è costantemente irritata per quell’inquadramento, chiarendo, come un’avveniristica creatura, pochi, elementari, concetti. Primo: «Non ho inventato niente». Secondo : «Il libro parla con molta grazia di incontri sessuali, nei loro aspetti base». Terzo: «Era uno dei modi di vivere delle donne rifugiate a Londra durante la guerra». Quarto: «Nel libro i caratteri principali sono cinque. Ma solo uno, o uno e mezzo, può essere considerato omosessuale. Per cui non capisco la definizione di ‘classico della letteratura lesbica’».

In poche parole, il coraggio della precisione, e della vita per come è stata e per come una, o uno, se la sceglie (siamo molto prima del Gay Pride, e lo si oltrepassa con una semplicità proprio avvenieristica). Quel libro è chiaro nel genere: è un’autobiografia un minimo trattata, e priva di prosa drammatica (il dramma stava fuori da quelle caserme, nella Francia occupata e collaborazionista). È anche una testimonianza, quantomeno unica, della vita, e quindi del modo di parlarsi, o di appassionarsi, o di amarsi, in “baracche” di donne che, comunque, sono esuli e combattono contro lo schifo maggioritario (maschile e femminile) che impera nel loro Paese d’origine. E poi: quelle donne in divisa devono anche fare i conti con la resistenza maschile, o macha, dei loro compagni di lotta, o commilitoni.

Da tener presente che siamo nel mondo degli anni Quaranta, anche se dalla parte buona. E che il libro usciva nel mondo degli anni Cinquanta, e negli Stati Uniti: dove, almeno, la logica del mercato (e della novità, in qualche modo liberatoria, di un libro come quello) moltiplicava le copie vendute, i diritti d’autore, e le traduzioni.

Lo spirito d’osservazione, e quello critico, sono stati un cocktail naturale della vita vissuta di Tereska: a 13 anni, in convento, veniva a sapere della conversione dei genitori (leggendo, per caso, un articolo pubblicato su un giornale ebraico) e ci rifletteva sopra. Suo padre Marek Szwarc non era uno sconosciuto nella sua comunità d’origine: pittore e scultore, con una moglie, Guina Pinkus, scrittrice e poetessa. Un bel po’ di parenti polacchi avrebbero rotto i rapporti dopo quel passaggio alla chiesa cattolica.

Tereska avrebbe anche interpretato le censure al suo libro con un colpo d’attenzione molto in avanti: più che “omofobo”, quel furore nordamericano rivelava la paura che il libro offrisse una realtà così vera (lo era), da diventare troppo seducente. Come la vita reale, e personale, ogni tanto è. Tanto più nel chiuso di una caserma di esiliati (o esiliate) combattenti, la cui vita può essere molto breve, e quindi tutta da spendere. Un’avventura seria, come si dice. A completare il colpo d’occhio sulle scelte di Tereska, vanno citati i suoi due mariti, e un altro dei suoi molti libri.

Il primo marito, George Torrès (sposato nel 1944), era un partigiano francese, ebreo, e figliastro di Léon Blum, il premier del Fronte popolare: veniva ucciso durante un’azione, mentre Tereska era incinta della loro figlia. Il secondo, il signor Levin, francese, scrittore, ebreo, più vecchio di lei di 15 anni, era un amico dei suoi genitori: l’avrebbe incoraggiata a trasformare il suo diario inglese, in un racconto vero, e cioè “Women’s Barrack”. E avrebbero avuto due figli, maschi. Più un altro, adottato. L’altro libro: si chiama “By Cécile”, e la Feminist Press americana lo ripubblicava con entusiasmo nel 1963. Parla di una donna che si innamora dell’amante di suo marito e gliela porta via.  

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