Il tempo è la più importante delle armi. Almeno nell’eurozona, è questo il mantra che viene pronunciato più spesso. Per uscire dalla peggiore crisi dall’introduzione dell’euro occorrono anni. Tanti, probabilmente troppi, come ha spiegato pochi giorni fa il capo economista del Fondo monetario internazionale (Fmi) Olivier Blanchard. Non solo. occorreranno diversi cambiamenti all’attuale struttura di Europa e zona euro. Nel frattempo, tuttavia, bisogna fare i conti con plurime criticità. Dalla recessione passando per il nuovo fondo salva-Stati ESM, i punti oscuri sono ancora tanti. E la strada da fare è disseminata di ostacoli.
Banca centrale europea. Le Outright monetary transaction (Omt), ovvero lo schema di acquisto di titoli di Stato con maturity fino a tre anni, sono attive. Ora tocca ai governi chiedere l’eventuale sostegno. Lo ha ripetuto più volte il presidente dell’Eurotower, Mario Draghi. Ma la riluttanza di Spagna e Italia, i due Stati membri per cui sono state create, è ancora elevata. «È un gioco pericoloso – dice una nota di Société Générale – perché sia Roma sia Madrid hanno bisogno di un sostegno sul mercato obbligazionario». Le esigenze di rifinanziamento dei due Paesi sono semplicemente troppo elevate. Secondo un paper del Centre for European policy studies (Ceps) a cura di Daniel Gros e Alessandro Giovannini, per Roma e Madrid da qui al 2016 occorrono 1.793 miliardi di euro. Oltre a ciò, bisogna considerare che Draghi ha giocato con il fuoco. Non avendo specificato target di rendimento degli acquisti e non avendo fissato un limite agli stessi, limitandosi a rimarcare che saranno completamente sterilizzati, ha teso la mano agli operatori finanziari più aggressivi. Facile sarà per loro testare la reale capacità della Bce di porsi come unico guardiano, almeno per ora, della sopravvivenza dell’euro. Il tutto considerando che il meccanismo di trasmissione della politica monetaria, come affermato da Draghi a fine luglio, è ancora rotto.
European stability mechanism. Atteso da tempo, anticipato di un anno e con poca potenza di fuoco. Ecco cosa è per ora lo European stability mechanism (Esm), il fondo salva-Stati da circa 500 miliardi di euro di dotazione massima che agirà in accordo con le Omt della Bce e con le eventuali linee di credito del Fondo monetario internazionale. Un banchiere elvetico, spiegando a Linkiesta quale sia il suo pensiero dello Esm, lo ha paragonato a un’orchestra senza direttore: «Se tutti gli elementi non suonano come devono, anche la migliore opera mai scritta viene rovinata». In altre parole, possono esserci tutti programmi di contingenza possibili, ma se non si trova una quadratura, il deragliamento è assicurato. Per quanto riguarda lo Esm saranno cruciali due fattori: i conferimenti e il road-show di presentazione del fondo stesso agli investitori. Per ciò che riguarda il primo campo si è deciso per una soluzione soft. Saranno versati, entro fine settimana i primi 32 miliardi di euro. Ironia della sorte, anche la Grecia dovrà versare la propria parte, circa 900 milioni di euro. Questi fondi potranno essere spinti, tramite la leva finanziaria, fino a 200 miliardi di euro. Poi, dovranno arrivare le altre risorse, per un totale di 80 miliardi di euro di capitale versato e 620 miliardi di capitale sottoscritto. Di questi, circa 14,29 sono appannaggio dell’Italia come capitale versato e 125,39 come capitale sottoscritto. «Per Paesi in recessione, trovare questi fondi equivale a uno sforzo sicuramente eccessivo», avvertiva nello scorso luglio Goldman Sachs. Inoltre, bisogna fare i conti con ciò che Klaus Regling, numero uno dello Esm, dirà agli investitori durante il road-show. In caso di risposte negative, l’effetto benefico di queste settimane potrebbe essere presto vanificato.
Fondo monetario internazionale. Il ruolo dell’istituzione guidata da Christine Lagarde è duplice. Da un lato deve spingere per una riforma delle quote conferite, in modo che anche i Paesi emergenti possano contare di più. Dall’altro, deve fronteggiare la crisi dell’eurozona, che rischia di mettere in ginocchio l’economia globale. Le risorse bastano? No. Come ha spiegato un’analisi del fondo hedge londinese Brevan Howard, ormai il Fmi è diventato l’unico appiglio per il risanamento dei conti pubblici nell’area euro. Ma se poi si chiude un occhio sul questa pratica, vedasi il caso della Spagna e del Portogallo, i quali avranno un anno in più rispetto a quanto pattuito con la Commissione Ue, le azioni del Fmi non possono dare i loro frutti. La riunione annuale in corso a Tokyo dovrebbe definire meglio le competenze dell’istituzione di Pennsylvania Avenue. Nel caso non fosse così, l’eurozona potrebbe entrare in uno stallo politico ancora più grave di quello visto nello scorso dicembre. E altro tempo andrebbe perduto.
Spagna. La questione principale riguarda la tempistica della richiesta di aiuto. I 100 miliardi di euro varati in luglio per la ricapitalizzazione del sistema bancario iberico potrebbero non essere abbastanza. Anzi, secondo Barclays bisogna attendersi una domanda formale di assistenza entro la prima parte del 2013. L’indebitamento regionale è fuori controllo, come anche la persistenza dei crediti incagliati nei bilanci delle banche. Più il mercato immobiliare perde valore, più gli asset si deteriorano, più le banche entrano in sofferenza, più le regioni (il cui rapporto con le Cajas, le casse di risparmio, è quasi mortale) vanno in dissesto. «La Spagna necessita di un programma che vada oltre le banche, ha conti pubblici in costante peggioramento», scrisse J.P. Morgan a fine agosto. Ora che ci sono sia Omt sia Esm, tocca a Madrid. La percentuale che la Spagna chieda un sostegno entro la fine del primo trimestre 2013 cresce di giorno in giorno. Secondo Lombard Street Research è ora al 75 per cento. Tutto dipende dal premier Mariano Rajoy, dato che il suo ministro dell’Economia, Luis De Guindos, è dato come uno dei politici favorevoli a questa soluzione quanto prima possibile.
Italia. Le elezioni rimangono l’evento più importante e atteso. I rischi politici sono elevati, come hanno avvertito diverse analisi di banche d’investimento. Il maggiore è la frammentazione della campagna elettorale in un duopolio: partiti pro-euro e partiti contro. In più, c’è l’ipotesi di un governo guidato nuovamente da Mario Monti. Questa sarebbe la soluzione più vicina allo spirito europeo, che vede in una maggiore integrazione l’unica soluzione possibile per uscire dalla crisi più severa che l’eurozona ricordi. Anche in questo caso, è il tempo che sarà a dettare la linea. Le riforme effettuate dall’esecutivo di Monti daranno i loro frutti solo nel medio-lungo termine. Fino ad allora, potrebbe rendersi necessario un intervento di sostegno sul mercato obbligazionario, complice la recessione in corso e le tensioni nella zona euro. In altre parole, l’attivazione di un piano congiunto Bce/Esm per aiutare l’Italia a soddisfare le esigenze di rifinanziamento per i prossimi anni senza un innalzamento degli oneri per il debito.
Grecia. La situazione di Atene è in evoluzione. Se nel breve termine il problema è come tagliare 13,5 miliardi di euro al fine di ottenere la prossima tranche di aiuti, 31,5 miliardi, nel lungo la questione riguarda la sostenibilità dei conti pubblici. Con un rapporto debito/Pil previsto al 181,8% nel 2013 secondo le stime del Fmi, è difficile pensare a soluzioni diverse da una nuova ristrutturazione del debito, dopo quella effettuata in marzo. Ora la troika (Ue, Bce, Fmi) si trova ad Atene e non ci dovrebbero essere sorprese fino a dicembre, quando verrà discussa la legge finanziaria dal governo di Antonis Samaras. «Ci attendiamo che la tranche di aiuti arrivi a fine novembre», hanno detto ieri fonti della Commissione Ue a Linkiesta. Quindi, i tagli arriveranno. Ma senza una politica economica in grado di rilanciare l’economia, non è possibile che si torni a parlare di uscita dalla depressione in cui è entrata Atene. A peggiorare la situazione ci sono le tensioni sociali, in aumento. Non è un caso che si stia pensando a un estensione di due anni per il raggiungimento degli obiettivi di bilancio. La discussione è in corso e nel Consiglio europeo previsto per la prossima settimana si discuterà anche di ciò. Come ha ricordato la Lagarde da Tokyo, avere più tempo potrebbe essere fondamentale per il bene del Paese.
Recessione. Le stime di Fondo monetario internazionale e Commissione Ue non sono positive. Per molti Paesi la recessione durerà più del previsto. Per nazioni come Italia e Spagna le prospettive di crescita nel 2013 sono ridotte a un lumicino. Secondo un’analisi di Deutsche Bank, «con il calo della domanda mondiale è possibile che nei primi tre mesi del 2013 si confermi uno scenario di recessione per tutto l’anno». In altre parole, prima di tornare a parlare di crescita bisognerà attendere il 2014. E c’è il rischio, specie per l’Italia, che il rapporto debito/Pil possa salire ben oltre il 128% preventivato da Citigroup poche settimane fa. Del resto, l’ultima Debt sustainability analysis del Fmi lascia poco spazio all’ottimismo: l’Italia ha il 95% di possibilità che nel 2017 il debito pubblico rimanga fra 120 e 130% del Pil e solo il 5% di probabilità di una riduzione sotto il 105 per cento. Il tutto nel caso la recessione termini nel corso del 2013. In caso contrario, i valori potrebbero peggiorare ulteriormente. E il contagio potrebbe lambire anche la locomotiva dell’eurozona, la Germania, e le economie europee, come la Polonia.
I prossimi passaggi. Il Consiglio europeo di giugno doveva essere il primo passo concreto verso una exit strategy dalla crisi. Crescita, unione bancaria, maggiore integrazione, eventuale bilancio comune europeo: si è parlato di tutto questo. E poi è finito nel dimenticatoio. Colpa delle divisioni interne fra l’asse composto da Germania, Finlandia e Olanda e tutti gli altri Paesi, fra cui quello del Club Med. Con un ritmo da tartaruga, l’eurozona sta andando verso il Single supervisory mechanism (Ssm), ovvero il meccanismo di supervisione bancaria centralizzato, con i poteri dati in mano alla Bce. Le critiche per questa mossa sono molte, come quelle avanzate dalla Bundesbank, la banca centrale tedesca guidata da Jens Weidmann. Ma, come ha ricordato in un report la banca elvetica UBS, non ci sono alternative: «O si fa così, oppure i mercati potrebbero iniziare a perdere quel poco di fiducia che ancora hanno nell’area euro». Si discuterà di questo anche durante il prossimo Consiglio europeo del 18/19 di ottobre, ma non sono attese sorprese. Forse, sarà l’ennesima occasione sprecata per fare un passo avanti.
Per ora gli investitori sono in una situazione attendista. Le mosse più importanti per la stabilizzazione nel breve termine – nascita delle Omt e attivazione dello Esm – sono state fatte. Tuttavia, è ancora incerta l’effettiva applicazione dei due programmi. Uno degli interrogativi riguarda il memorandum d’intesa che i Paesi che chiedono il sostegno di Omt/Esm devono sottoscrivere. Nel caso non venga rispettato, cosa succederà? Lo ha scritto senza troppi giri di parole il fondo hedge Citadel in una nota di commento dopo l’Eurogruppo di lunedì: «Sarebbe probabilmente l’inizio della fine. Queste sono le uniche armi che l’eurozona può permettersi: nemmeno il Fmi può sostenere un’area euro in cui sei Paesi su 17, fra cui la terza e la quarta economia continentale, sono sotto tutela finanziaria». Si arriverà davvero fino a questo punto? È probabile. Come ha spiegato Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, nella sua ultima nota settimanale «i Paesi mediterranei hanno probabilmente percorso fin qui i due terzi dell’aggiustamento necessario. Hanno ridotto di molto il disavanzo delle partite correnti (anche se, come in Italia, in modo più ciclico che strutturale) e hanno recuperato una buona metà della competitività perduta negli sciagurati anni Duemila». C’è però un elemento da non dimenticare, ricorda Fugnoli: «Come sa chi va in montagna, tuttavia, l’ultimo terzo di una scalata è molto più faticoso del primo o del secondo». Capire in che punto si trova l’eurozona è utile per comprendere quanta strada bisogna ancora fare. Date le variabili in gioco, è ancora tanta.